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V’è una nostalgia delle cose che non ebbero mai un cominciamento.
Affondare la propria origine – non necessariamente connessa alla nascita – in terra d’Otranto è destinarsi un reale-immaginario. E lì, appunto, nel primo dì d’un settembre io fui nato. Otranto. Da sempre magnifico, religiosissimo bordello, casa di cultura tollerante confluenze islamiche, ebraiche, arabe, turche, cattoliche. Ne è testimone la stupenda cattedrale. Il suo favoloso mosaico figurante l’“albero della vita”, dell’anno 1100.
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Carmelo Bene
incipit Sono apparso alla Madonna, Longanesi, 1983
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foto: copertina del libro
Sono apparso alla Madonna è un libro di Carmelo Bene pubblicato nel 1983 ed è una forma di autobiografia, riferita da Bene come “rischiosissima, immaginaria e reale a un tempo”, fondata “sul proprio non esserci, sull’abbandono, sulla mancanza.”
Tra il racconto immaginario ed eventi accaduti realmente notevole è per esempio la memorabile lettura di Dante dalla Torre degli Asinelli a Bologna, descritta con un linguaggio arcaico e immaginifico. Il titolo del libro avrebbe dovuto essere tratto proprio da questa esperienza, ma fu l’inconsapevole Ruggero Orlando a suggerirlo, una notte a Forte dei Marmi, mentre Carmelo Bene e suoi ospiti erano alle prese con delle estenuanti partite di ping-pong. Leggiamo nella Vita di Carmelo Bene…
[…] Dalla fessura del cancello filtra la sagoma alticcia di Ruggiero Orlando, la bottiglia di scotch in pugno. Barcollando, poggiandosi precario a provvidenziali fusti indovinati al buio, accostandosi al tavolo da gioco: “Caro Carmelo… ho saputo che sei apparso alla Madonna!”, e giù, piegato in due, in uno sgangherato sghignazzo dei suoi. C.B. folgorato; “ecco il titolo del mio libro”.
Oltre all’abbondanza di arcaismi nella resa stilistica, va considerato che la lingua e il linguaggio che usa Bene in questo libro (e anche in altre suoi scritti) spesso e volentieri accentuano un senso ritmico e musicale del dire, al limite della versificazione lirica. Per es. di ritorno a Otranto, dopo la parentesi del Teatro Laboratorio, Bene descrive la visione che si spalanca dal balcone della villa dei suoi a Santa Cesarea Terme, la “scogliera e il Mar Ionio pavone d’infinite correnti fatate”, che non ha nulla di prosaico e descrittivo:
« Da quei balconi arcati, leggi nei giorni chiari Albania rosa. Senti ognora la vita scelta a forza. Tristo, tristo indovinello sbiadisce sul fondale a flutti neri dipinti ripetutamente in basso dell’azzurro infinito. Azzurro d’Africa. Sotto, immediato è il brontolio sulfureo – cassa a lutto tra le rocce ciclopiche, orrendo corpo che vi si dilacera ».
Il libro è pervaso da questa “arcaica prosa ritmica e musicale”, che fa spesso immaginare piuttosto a un poema autobiografico che a una mera autobiografia (quantunque venata dall’immaginario), sottratto alla convenienza e alla struttura del verso, e forse per questo (essendo sottaciuto e inespresso) più poetico. (fonte Wikipedia)
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