collettivo culturale tuttomondo Michele Mari poesia
Tu non ricordi
ma in un tempo
così lontano che non sembra stato
ci siamo dondolati
su un’altalena sola
Che non finisse mai quel dondolio
fu l’unica preghiera in senso stretto
che in tutta la mia vita
io abbia levato al cielo
Michele Mari, da Cento poesie d’amore a Ladyhawke, Einaudi
foto: Mario Giacomelli, 1970 – fair use
Michele Mari (Milano, 1955) è uno scrittore e traduttore italiano.
Figlio del designer Enzo Mari e della disegnatrice Iela Mari, insegna Letteratura italiana all’Università Statale di Milano. Dal 1992 risiede prevalentemente a Roma. Il suo primo testo narrativo (L’incubo nel treno, 1964) è nato come regalo di Natale per suo padre, che nel 1995 ne ha realizzato un’edizione in fac-simile fuori commercio.
Dall’incontro fra letterarietà e immaginazione “nera” e mostruosa, nascono i suoi primi libri, che declinano in modi fantastici il tema del doppio, in chiave ora gotica (Di bestia in bestia) ora barocca (La stiva e l’abisso), passando per l’apocrifo leopardiano Io venìa pien d’angoscia a rimirarti.
Mari ha una produzione poetica (Cento poesie d’amore a Ladyhawke) e grafica, affidata perlopiù a fumetti degli anni settanta (I Sepolcri illustrati, Il Visconte dimezzato). Rilevante infine l’attività critico-filologica e saggistica, volta soprattutto alla letteratura italiana del XVIII e XIX secolo e alla letteratura fantastica (I demoni e la pasta sfoglia). Ha curato diverse edizioni di classici antichi e moderni. (fonte Wikipedia)
Michele Mari, da Cento poesie d’amore a Ladyhawke, Einaudi
Esistono alcuni amori che è bene non rivelare a nessuno, nemmeno alla persona amata. Sono passioni che si sviluppano nei luoghi più ombrosi dell’anima, e vivono pericolosamente sbilanciate dalla parte del sogno.
Terribilmente insicuri, possono essere al tempo stesso particolarmente spavaldi; non comprendono il valore del compromesso, e perciò si assestano spesso su posizioni estreme.
Non hanno una grande dimestichezza con il tempo, e dunque si impongono la misura dell’eterno.
Sono irrequieti, nostalgici, infantili, teatrali, irragionevoli. Non si prefiggono traguardi concreti, ma perseguono obiettivi dissennatamente irrealizzabili. Idealizzano il sesso, ma in realtà lo temono più di ogni altra cosa. Giudicando il pensiero più appagante della corporeità, all’atto preferiscono la potenza, alla consumazione il desiderio. All’incertezza del futuro, antepongono le coordinate rassicuranti del passato; al rischio dell’esperienza, il conforto della rappresentazione.
Le Cento poesie d’amore a Ladyhawke di Michele Mari raccontano un amore come questo. Chiariamo subito un punto: a dispetto della natura eminentemente platonica della relazione narrata nel libro, Ladyhawke – ovvero la donna amata dal poeta – è una persona reale, nel senso che esiste davvero una donna capace di ispirare nell’autore una dedizione così totale e irragionevole. La storia è iniziata sui banchi di scuola, in un tempo remotissimo, collocato in un’infanzia edenica, inaccessibile persino nel ricordo, e anch’essa dunque di natura astratta, cerebrale: «Tu non ricordi / ma in un tempo / così lontano che non sembra stato / ci siamo dondolati su un’altalena sola».
Durante la giovinezza, tuttavia, il poeta non si è mai dichiarato. Forse, semplicemente, non ne ha avuto il coraggio; o forse, in fondo, non gli interessava. Ciò che lui desiderava non era stabilire una relazione, e dunque irrompere nella storia, ma proprio il contrario, ovvero negare la natura temporale di quell’esperienza, proiettandola in una dimensione eterna, incommensurabile rispetto alla vita terrena: «Che non finisse mai quel dondolio / fu l’unica preghiera in senso stretto / che in tutta la mia vita / io abbia levato al cielo». (di Luca Alvino)
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