cctm collettivo culturale tuttomondo Jerome K. Jerome (UK)
L’ozio di Jerome K. Jerome (Walsall, 1859 – Northampton, 1927)
Questo è un argomento che mi vanto di conoscere profondamente. Il buon uomo che, quand’ero giovane, mi abbeverò alla fonte della sapienza per nove ghinee all’anno (senza straordinari), soleva dire che in vita sua non aveva mai conosciuto un ragazzo che in maggior tempo riuscisse a fare meno lavoro; e ricordo che la mia povera nonna mi fece una volta osservare incidentalmente, durante l’istruzione sull’uso del libro di preghiere, che era assai improbabile che in avvenire avrei fatto molte cose che non avrei dovuto fare, ma che era convintissima, senza il minimo dubbio, che avrei lasciato da fare quasi tutte le cose che avrei dovuto fare. Temo di avere smentito metà della profezia di quella cara vecchia. Il Cielo mi aiuti!
Ho fatto molte cose che non avrei dovuto fare, a dispetto della mia infingardaggine; ma è certo che ho pienamente confermato l’esattezza del suo giudizio in quanto ho trascurato di fare molte cose che avrei dovuto fare.
L’ozio è sempre stato il mio punto forte. Non me ne faccio un merito: è un dono di natura. Pochi lo possiedono.
Vi sono milioni di fannulloni, una quantità di pigroni, ma un ozioso genuino è una rarità. Egli non è un uomo che se ne sta tutto il giorno con le mani in tasca. Al contrario, la sua precipua caratteristica è quella di essere sempre occupatissimo. È impossibile godersi completamente l’ozio quando uno non ha niente da fare. Non c’è piacere a far niente quando non si ha nulla da fare.
Perdere il tempo diventa allora un’occupazione non indifferente. L’ozio, come i baci, perché sia dolce dev’essere rubato.
Molti anni fa, quand’ero ancora un giovanotto, mi ammalai gravemente e non riuscii mai a sapere che cos’avessi, tranne che avevo un gran freddo.
Ma suppongo che si trattasse d’un male molto serio, perché il dottore disse che sarei dovuto andare da lui un mese prima, e che se avessi aspettato un’altra settimana egli non avrebbe più risposto per le conseguenze. È una cosa straordinaria, ma non so di nessun dottore che, chiamato in un qualunque caso, non avesse lasciato capire che il ritardo d’un giorno avrebbe reso la cura senza speranza.
Il nostro medico curante, il filosofo e l’amico sono come l’eroe del melodramma che giunge sempre sulla scena al momento giusto, nell’istante preciso.
È la Provvidenza, né più né meno.
Ebbene, ero gravemente ammalato e mi fu ordinato di andare un mese a Buxton, con l’ingiunzione precisa di non far nulla per tutto il tempo che sarei stato là.
«Voi avete bisogno di riposo» disse il dottore «di riposo assoluto». Mi parve un deliziosa prospettiva. «Quest’uomo capisce veramente qual è il mio male» dissi tra me. E mi figurai una magnifica vacanzetta, quattro settimane di dolce far niente con una piccola dose di malattia; non molta malattia, ma una malattia discreta, giusto quel tanto che bastava per darle un sapore di sofferenza e renderla poetica.
Mi sarei alzato tardi, avrei sorbito una tazza di cioccolata e avrei fatto colazione in pantofole e in pigiama. Mi sarei sdraiato in giardino sopra un’amaca e avrei letto romanzi sentimentali a fine malinconico, finché il libro mi sarebbe caduto distrattamente di mano, e io avrei reclinato il capo, guardando come in un sogno nell’azzurro profondo del firmamento, inseguendo le bianche nuvolette, fluttuanti come candide vele attraverso le celesti profondità, e ascoltando il garrulo canto degli uccelli e lo stormir delle fronde; o, quando fossi stato troppo debole per uscire, mi sarei seduto presso la finestra aperta del pianterreno, sostenuto dai guanciali, e sarei parso sciupato e interessante, così che tutte le belle ragazze che passavano, vedendomi, avrebbero sospirato.
E due volte al giorno, sulla carrozzella degli ammalati, sarei andato alla Colonnade a bere le acque. Oh, quelle acque! Non ne avevo mai bevuto fino allora e l’idea mi solleticava alquanto. “Bere le acque” mi suonava alla moda e da regina Anna, ed ero convinto che mi sarebbe piaciuto. Invece ahimè, dopo le prime tre o quattro mattine…! La descrizione che di quelle acque fa Sam Weller, dicendo che «hanno un sapore di ferro da stiro caldo» non dà che una pallida idea del loro sapore orribile e nauseabondo.
Se esiste qualche cosa che possa far risanare d’incanto un ammalato non potrebbe essere altro che il sapere di dover bere tutti i giorni un bicchiere di quell’acqua fino a completa guarigione.
Io bevvi quell’acqua per sei giorni consecutivi, così semplicemente come stava, e quasi quasi andai all’altro mondo; ma, dopo di allora, adottai il metodo di ingollarvi dietro un buon bicchierone d’acquavite, e ne fui contento. Parecchi medici illustri, da me edotti più tardi su quell’esperimento, mi informarono che l’alcol doveva aver interamente neutralizzato gli effetti delle proprietà calibrate contenute nell’acqua. Sono contento che la fortuna mi abbia aiutato a scoprire la cosa che andava proprio bene.
Ma “bere le acque” fu soltanto una piccola parte della tortura alla quale fui sottoposto in quel memorabile mese, un mese che fu, senza eccezione, il più disgraziato che io abbia mai passato. Durante la maggior parte di esso, seguii religiosamente le prescrizioni del medico e perciò non feci nulla tranne che passeggiare intorno alla casa e in giardino e uscire per due ore al giorno nella carrozzella degli ammalati.
Quella passeggiata rompeva in misura discreta la monotonia di quella vita.
Farsi trasportare in carrozzella, specialmente se non si è abituati a tale divertente esercizio, è molto più eccitante che non possa apparire a un casuale osservatore. Un senso di pericolo, quale un semplice profano non potrebbe capire, è sempre presente alla mente dell’occupante. Egli ha, ogni minuto, la sensazione netta che quel mobile si debba rovesciare, una convinzione che diventa specialmente viva quando una cunetta o una buca nella strada asfaltata di recente fanno la loro apparizione. Gli sembra che ogni veicolo che passa gli debba venire addosso; e mai gli capita di salire o scendere una collina senza cominciare immediatamente a meditare sui propri casi, supponendo, come sembra assai probabile, che l’essere debole di ginocchia non sia arbitro del suo destino e si debba lasciar precipitare.
Ma anche questo diversivo, che ha dato una certa vita all’azione, dopo un po’ cessa e la noia diventa assolutamente insopportabile.
Sentii che sotto il peso di essa il mio spirito cedeva, e poiché non è uno spirito forte pensai che non era prudente gravarlo troppo.
Perciò, circa il ventesimo giorno, mi alzai di buon mattino, feci colazione e m’avviai a piedi verso Hayfield, ai piedi del Kinder Scout, una cittadina laboriosa e simpatica, stesa in un’amena valle, e con due graziosissime ragazze. Almeno erano graziosissime allora; una la incontrai sul ponte e mi sorrise, a quanto mi parve; l’altra se ne stava sulla porta aperta di una casa e investiva senza frutto un capitale di baci sul faccione roseo di un bambino. Ma sono passati tanti anni e ora saranno certamente due donnone grosse e bisbetiche. Ritornando, vidi un vecchio che spaccava delle pietre e fece sorgere in me un tale desiderio di muovere le braccia che gli offrii da bere se mi lasciava prendere il suo posto. Era un vecchio gentile e accondiscese al mio desiderio.
Mi misi a spaccar pietre con l’accumulata energia di tre settimane, e feci più lavoro io in mezz’ora che non avesse fatto quel vecchio in una giornata. Ma egli non se ne ingelosì.
Oramai avevo fatto il primo passo e da quel momento non feci che distrarmi sempre più, uscendo tutte le mattine a fare una passeggiata e andando tutte le sere al Pavilion a sentire la musica.
Ma, ciò nonostante, i giorni passavano lo stesso lentamente, e quando venne finalmente l’ultimo sentii in cuore una grande contentezza allorché mi ritrovai sul treno che mi portava via dalla gottosa e tisica Buxton verso la Londra severa e operosa. Mentre si traversava Hendon, nella sera, guardavo fuori del finestrino. I lividi bagliori sfolgoranti sulla possente città sembrava ridonassero calore al mio cuore e, quando più tardi una vettura pubblica mi trasportò fuori dalla stazione di St Pancras, i vecchi rumori familiari che udii riecheggiare intorno a me mi parvero la musica più dolce che mai avessi udita da molti e lunghi giorni.
Certamente non mi godetti quel mese di ozio. A me piace oziare quando non devo starmene ozioso; non quando esso è la sola cosa che ho da fare.
Tale è il mio stupido temperamento. L’ora in cui amo di più indugiarmi con la schiena al fuoco, facendo il calcolo dei debiti che ho, è quella in cui sul mio tavolino sta un bel monticello di lettere alle quali bisogna rispondere con la prossima posta. Il tempo in cui amo di più indugiare a tavola, dopo il pranzo, è quello in cui so di aver un lungo lavoro da fare nel pomeriggio. E se, per qualche ragione urgente, devo alzarmi una mattina assai presto, allora più che mai amo starmene una mezz’ora di più a letto.
Ah, che delizia voltar fianco e mettersi a dormire di nuovo, “giusto per cinque minuti”.
Esiste essere umano, domando io, all’infuori dell’eroe di un racconto per i giovani della scuola domenicale, che si alza volentieri presto alla mattina? Vi sono degli uomini per i quali l’alzarsi presto la mattina è assolutamente impossibile. Se, poniamo, devono alzarsi alle otto, se ne stanno a letto fino alle otto e mezzo. Se le circostanze cambiano e le otto e mezzo diventano un’ora abbastanza mattutina per loro, allora non si alzano prima delle nove: sono come quell’uomo di Stato che si diceva arrivasse sempre puntualmente mezz’ora più tardi. Escogitano tutti i sistemi. Comperano delle sveglie (ingegnose invenzioni che sbagliano sempre ora e svegliano chi non dovrebbe essere svegliato).
Dicono a Sarah Jane di battere alla porta e di chiamarli, e Sarah Jane batte alla porta e li chiama ed essi grugniscono un «Arrivo» e poi riprendono di nuovo a dormire beatamente. Conoscevo un tale che balzava fuori dal letto immediatamente e faceva un bagno freddo; ma neanche quello serviva, perché dopo si ficcava di nuovo a letto per riscaldarsi.
Quanto a me, sono convinto che posso benissimo resistere a non tornare più a letto una volta che sia riuscito ad alzarmi. È quello strappar via la testa dal guanciale che mi riesce così difficile, e nessuna risoluzione, presa prima di andarmene a letto, riesce a facilitarmi quell’operazione.
Dopo aver sciupato tutta la serata, dico a me stesso: «Basta, questa sera non voglio lavorare più; mi alzerò presto domattina»; e sono fermamente convinto che lo farò… in quel momento. La mattina, però, il mio entusiasmo è svanito e penso che sarebbe stato meglio se avessi vegliato di più la sera. E poi c’è la seccatura di vestirsi, e più uno vi pensa e meno gli vien voglia di alzarsi.
È una cosa strana questo letto, imitazione della tomba, dove stendiamo le nostre stanche membra e ci sprofondiamo quietamente nel silenzio e nel riposo. «O letto, o letto, delizioso letto, paradiso sulla terra per la testa stanca!», come cantava il povero Hood, tu sei come una buona e vecchia nutrice per noi poveri ragazzi tormentati. Intelligenti o sciocchi, buoni o cattivi, tu ci prendi tutti nel tuo materno grembo e calmi il nostro pianto disperato.
Uomini forti pieni di preoccupazioni, ammalati pieni di sofferenze, giovinette che singhiozzano per il loro infedele amante, tutti quanti, come fossimo dei bimbi, posiamo le povere teste dolorose sul tuo bianco seno e tu a poco a poco ci consoli.
La nostra pena diventa veramente orribile, quando tu fai lo sdegnoso e non vuoi confortarci. Come stenta a spuntare il giorno, quando non riusciamo a prender sonno! Oh, notti orribili, agitate, febbricitanti e dolorose, quando giacciamo come uomini vivi fra i morti e contiamo quelle ore di tenebre che non passano mai e che ancor ci separano dalla luce! E oh, notti ancor più orribili, passate a vegliare un altro che soffre, quando un debole fuoco ci fa ogni tanto trasalire di spavento con un improvviso scoppiettio e il tic-tac dell’orologio sembra un martello che picchi sulla vita di chi stiamo vegliando.
Ora basta con letti e camere da letto. Mi sono in essi indugiato a lungo, anche troppo per un pigrone come me. Usciamo e facciamoci una fumatina.
Questa fa passare il tempo discretamente bene e non fa male. Il tabacco è stato una benedizione per noi oziosi. È difficile immaginare che modo trovassero per occupare il loro spirito gli impiegati municipali, prima di Sir Walter. Do interamente la colpa dei temperamenti litigiosi dei giovanotti medioevali al bisogno di svago.
Essi non avevano niente da fare e non potevano fumare, così che erano sempre dietro a litigare e a combattere. Se, per un caso straordinario, non c’era nessuna guerra da fare fuori, allora cominciavano una mortale guerra intestina col loro vicino, e se, a dispetto di questo, avevano ancora del tempo da buttar via, lo occupavano a discutere quale delle loro donne amate era di più gentile aspetto, e gli argomenti impiegati dalle due parti erano azze, mazze, ecc.
Le questioni di estetica in quei tempi si risolvevano subito. Quando un giovanotto del secolo XII s’innamorava di una donna, faceva tre passi indietro, la guardava negli occhi e non le diceva lì per lì che era bella.
Diceva che sarebbe andato in giro a vedere. E se, quand’era fuori, trovava un uomo a cui riusciva di rompere la testa – la testa dell’altro uomo s’intende – questo voleva dire che la sua – la ragazza del primo uomo – era una bella ragazza. Ma se l’altro rompeva la sua testa – non la sua propria, voi capite, ma quella dell’altro – l’altro uomo al secondo, cioè, perché naturalmente l’altro sarebbe stato soltanto l’altro uomo per lui, non il primo uomo, il quale… insomma, se egli rompeva la sua testa, allora la sua ragazza – non quella dell’altro uomo, ma l’uomo che era il… Allora, se A rompeva la testa di B, allora la ragazza di A era una bella ragazza; ma se B rompeva la testa di A, allora la ragazza di A nonera una bella ragazza, ma era bella quella di B. Tale era il metodo usato nell’arte della critica.
Oggi invece accendiamo la pipa e lasciamo che le ragazze litighino fra loro.
Esse lo fanno molto bene. Tutto il lavoro che dovremmo far noi lo fanno loro. Fanno il medico, l’avvocato e l’artista. Dirigono i teatri, i giornali e imbastiscono delle truffe. Prevedo con gioia che verrà il giorno in cui noi uomini non avremo nulla da fare e ce ne staremo a letto fino a mezzogiorno, leggeremo due romanzi al giorno, avremo dei graziosissimi piccoli tè delle cinque tutti intimi, e non graveremo più i nostri cervelli di materie difficili, ma discuteremo sugli ultimi modelli di pantaloni e sul modo in cui era fatta la giacca di mister Jones e se gli stava bene.
È una meravigliosa prospettiva per le persone oziose.
_
da I pensieri oziosi di un ozioso, Feltrinelli, 2019
_
immagine: dettaglio della copertina del libro
_
Jerome K. Jerome Jerome K. Jerome Jerome K. Jerome Jerome K. Jerome Jerome K. Jerome Jerome K. Jerome
cctm collettivo culturale tuttomondo Jerome K. Jerome (UK)