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Hans Christian Andersen (Danimarca)

11/03/2023 By carlaita

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C’era una volta un ago da rammendo di sentimenti così delicati che credeva di essere un ago da ricamo.

«State attente a dove mi tenete!» disse l’ago da rammendo alle dita, che lo tiravano fuori dalla scatola. «Non mi perdete! Se cado sul pavimento, non sarete più capaci di ritrovarmi, tanto sono sottile.»
«Questa poi!» dissero le dita e lo afferrarono per la vita.
«Guardate: io arrivo col seguito!» esclamò l’ago da rammendo, tirando dopo di sé un lungo filo, che però non aveva il nodo.

Le dita guidarono l’ago fino nella pantofola della cuoca dove la tomaia si era rotta e doveva essere ricucita.
«È un lavoro volgare!» gridò l’ago da rammendo. «Io non riuscirò mai a passarci! mi spezzo! mi spezzo!» e difatti si spezzò. «Non l’avevo forse detto?» disse l’ago «sono troppo sottile!»
Adesso non servirà più a niente, pensarono le dita, ma lo tennero comunque tra loro, perché la cuoca vi sciolse sopra della ceralacca e lo infilò sulla sua sciarpa.
«Ecco, adesso sono una spilla da cravatta!» esclamò l’ago da rammendo. «Lo sapevo che avrei ottenuto degli onori, quando si è qualcuno si diventa importanti!» e intanto rideva tra sé, perché naturalmente non si può vedere un ago da rammendo che ride. Stava tutto fiero come se andasse in carrozza, e guardava da tutte le parti.
«Posso avere l’onore di chiedervi se siete d’oro?» chiese poi allo spillo, che era il suo vicino. «Avete un ottimo aspetto e poi la testa è proprio Vostra! ma è così piccola! Dovete cercare di farla crescere, perché non è certo da tutti avere della ceralacca all’estremità!» e così l’ago da rammendo si drizzò fiero, ma subito cadde dalla sciarpa nel lavandino, proprio mentre la cuoca faceva scorrere l’acqua.
«Adesso si viaggia» esclamò l’ago da rammendo «purché non mi smarrisca!» E invece si smarrì.
«Sono troppo sottile per questo mondo!» commentò l’ago quando si trovò nel rigagnolo. «Però ho la coscienza di quello che sono, e ciò è una soddisfazione!» e si tenne ben dritto senza perdere il buon umore.

Sopra di lui passavano cose di ogni genere: schegge di legno, pagliuzze, pezzetti di giornale. «Guarda come navigano!» disse l’ago da rammendo. «Non sanno che sotto c’è qualcosa che punge! Io pungo! E rimango qui. Ecco, ora arriva un legnetto; crede che al mondo non ci sia altro che “legnetto”, cioè lui stesso; ora passa una pagliuzza, e come si rigira! Non pensare troppo a te stessa potresti andare contro il selciato! Là galleggia un giornale! ormai è dimenticato quello che ci sta scritto sopra, ma ciò nonostante lui si gonfia tutto. Io me ne sto qui tranquillo. So quello che sono e tale resterò.»

Un giorno si fermò vicino a lui qualcosa che luccicava in modo splendido, e l’ago da rammendo lo credette un diamante, ma in realtà era un coccio di bottiglia; comunque, dato che luccicava, l’ago da rammendo si presentò come spilla da cravatta.
«Lei non è un diamante?» «Sì qualcosa di simile!» e così entrambi credettero di essere preziosi e cominciarono a parlare della arroganza del mondo.
«Io abitavo nella scatola di una ragazza» raccontò l’ago da rammendo «e la ragazza faceva la cuoca; aveva in ogni mano cinque dita, ma non ho mai conosciuto nessuno che fosse più presuntuoso di loro; e pensare che il loro compito era quello di tenermi, tirarmi fuori dalla scatola e ripormi di nuovo.»
«Erano lucenti?» domandò il coccio di bottiglia.
«Lucenti?» esclamò l’ago «no! no! erano solo superbi! erano cinque fratelli, tutti “dita” per nascita, stavano dritti e uniti tra loro, sebbene fossero di diversa lunghezza. Il più esterno di loro, il pollice, era basso e grasso, era fuori dalla fila e aveva un’unica frattura sulla schiena, perciò si poteva piegare solo una volta. Ciò nonostante egli sosteneva che un uomo, perdendolo, non era più idoneo al servizio militare. L’indice si ficcava nel dolce e nell’amaro, indicava il sole e la luna, e faceva pressione quando si scriveva. Il medio guardava gli altri dall’alto in basso, l’anulare aveva un anello d’oro in vita e il mignolo non faceva nulla e se ne vantava. Era pura spavalderia e nient’altro; così io caddi nel lavandino.»
«E ora siamo qui a luccicare» commentò il pezzo di vetro. In quel mentre arrivò molta acqua nel rigagnolo che straripò dai due lati e si portò via il pezzo di vetro.
«Ecco è stato promosso!» disse l’ago da rammendo. «Io resto qui, sono troppo sottile, ma ne vado fiero, e la fierezza è rispettabile» e si tenne dritto meditando a lungo.
«Quasi credo di essere nato da un raggio di sole, tanto sono sottile! Mi sembra anche che il sole mi cerchi sempre sotto l’acqua. Purtroppo sono così sottile che mia madre non riesce a ritrovarmi; se avessi ancora il mio vecchio occhio, che si è spezzato, credo che potrei piangere – no, forse non lo farei, piangere non è una cosa fine!»

Un giorno dei monelli si misero a giocare nel rigagnolo e vi trovarono vecchi chiodi, monetine e cose simili. Erano tutte porcherie, ma per loro era un divertimento.
«Ah!» esclamò uno di loro, quando si punse con l’ago da rammendo «guarda che tipo!»
«Io non sono un tipo! Sono una signorina» replicò l’ago, ma nessuno lo udì. La ceralacca si era staccata e lui era diventato tutto nero, ma il nero assottiglia e quindi lui credette di essere ancora più sottile di prima.
«Arriva un guscio d’uovo» gridarono i ragazzi e subito infilzarono l’ago nel guscio.
«Pareti bianche e io sono tutto nero!» disse l’ago «mi sta proprio bene; così adesso mi noteranno! Purché non mi venga mal di mare, perché altrimenti mi spezzo.» Ma non gli venne mal di mare e neppure si spezzò.
«È un bene avere lo stomaco d’acciaio contro il mal di mare e poi bisogna sempre ricordare che si vale più di un uomo! Ora il male è passato! Quanto più uno è sottile, tanto meglio resiste.»
«Crac» fece il guscio d’uovo, perché un carro pesante gli passò sopra. «Oh, come preme!» gridò l’ago da rammendo «ora mi viene il mal di mare! ora mi spezzo! mi spezzo!» ma non si spezzò, sebbene gli fosse passato sopra un carro pesante; si ritrovò disteso per terra e lì potrà anche rimanere!

Hans Christian Andersen

da Fiabe, Einaudi, 1956

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opera: Ambrose McEvoy, Il rammendo, 1912

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