collettivo culturale tuttomondo Gabriel García Márquez colera
Così pensava a lui senza volerlo, e quanto più pensava a lui più le veniva rabbia, e quanto più le veniva rabbia tanto più pensava a lui, finché non fu qualcosa di così insopportabile che le travolse la ragione.
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Así, pensaba en él sin quererlo, y cuanto más pensaba en él más rabia le daba, y cuanto más rabia le daba más pensaba en él, hasta que fue algo tan insoportable que le desbordó la razón.
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Gabriel García Márquez
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frammento da L’ amore al tempo del colera, Arnoldo Mondadori, 1986 – fragmento El amor en los tiempos del cólera, Oveja Negra, 1985
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Fotogramma : L’amore ai tempi del colera/ El amor en los tiempos del cólera, 2007, Mike Newell – Giovanna Mezzogiorno (Fermina Daza) e Javier Bardem (Florentino Ariza)
“Cinquantun anni, nove mesi e quattro giorni” sono le parole rimaste maggiormente impresse nell’immaginario collettivo dei lettori de “L’amore ai tempi del colera”, ormai divenuto, anche se non a giudizio unanime, un classico nato dalla magistrale penna di Gabriel García Márquez, così come la sua opera più nota, Cent’anni di solitudine, del 1967.
Pubblicato nel 1985, a tre anni dal conseguimento del premio Nobel, il romanzo divenne anche un film nel 2007, una trasposizione cinematografica che si avvantaggia di una scrittura particolarmente “scenografica”, che viene attribuita all’autore, complessa e intellegibile al tempo stesso e, soprattutto, dotata di un fascino seducente che si compone di riferimenti alla storia e alla cultura popolare sudamericana, dai quali, tuttavia, trascende, del realismo magico che trasfigura il quotidiano, arricchendolo di senso e rendendo indimenticabili personaggi e vicende, e, infine, anche di echi autobiografici.
Ciò che rende l’asse temporale prima citato così memorabile, è il fatto ch’esso costituisce il tempo della lunga attesa da parte di Florentino Ariza, trascorso nella granitica certezza che il suo incondizionato amore per Fermina Daza trovasse finalmente soddisfazione. E’ una sorta di “cataclisma d’amore” della durata di mezzo secolo, nato dal semplice incrocio di sguardi tra un fattorino del telegrafo e la giovane figlia di un immigrato spagnolo vedovo, arricchitosi con traffici illeciti, domiciliati in una delle case più antiche e diroccate di Cartagena de Indias, in cui si erano trasferiti da meno di due anni. L’evento casuale, che a stenti desta la curiosità della ragazza, devasta però l’uomo, al punto da spingerlo a creare attorno a lei un’aura di virtù e doti immaginarie che ne catalizzeranno l’interesse per sempre.
Ma la curiosità, la quale non è che “un’altra delle tante insidie dell’amore”, quello che Florentino definisce “frutto di un equivoco clinico”, i cui sintomi si rivelano assai simili a quelli del colera, mietendone quasi altrettante vittime ma non necessariamente in tempo di epidemie, inizia ad attirare nella medesima trappola anche Fermina. La donna viene, infatti, coinvolta prima attraverso le visite “casuali” e puntualissime davanti al suo giardino e poi le incessanti e sempre più lunghe lettere del telegrafista incredibilmente versato nell’arte scrittoria (scriveva anche poesie su commissione per giovani amanti). Ne scaturirà una fitta corrispondenza, seppure iniziata con molti tentennamenti, ma che, in un secondo momento, riuscirà persino a superare la lunga separazione imposta dal collerico Lorenzo Daza per tutelare la figlia da un partito ritenuto non sufficientemente all’altezza delle proprie aspettative.
Quando la ragazza, considerata dal padre ormai fuori pericolo, riuscirà finalmente a tornare nella sua città e nella sua casa e si ritroverà nuovamente di fronte Florentino, capirà di aver anche lei compiuto un immotivato lavoro di idealizzazione nei suoi confronti, perdendo in quello stesso istante ogni interesse per l’uomo. Lo stesso, evidentemente, non accadrà al giovane che ben presto dovrà affrontare l’immensa sofferenza di saperla promessa sposa del partito perfetto ossia Juvenal Urbino, medico stimato e rispettato, laureatosi in Francia e subito trovatosi ad affrontare un’epidemia di colera, la malattia, della quale diverrà un esperto, che aveva ucciso suo padre, medico anch’egli. E sarà proprio un infondato sospetto di colera a permettergli di conoscere la sua futura moglie.
Da quel momento, tuttavia, Florentino non smette di aspettare Fermina, persuaso, anzi, certo che prima o poi sarebbe giunto il suo momento. Nel frattempo, riesce a farsi assumere dallo zio Leòn XII, direttore della Compagnia Fluviale dei Caraibi, fratello di un padre, Pio Quinto (erano fratelli naturali, figli di una cuoca che usava curiosamente assegnare loro nomi di papi), che non lo aveva mai riconosciuto, pur provvedendo in segreto a lui. Florentino, con una determinazione ch’egli attribuisce esclusivamente al proprio progetto d’amore, scala con risoluzione i vertici della compagnia, diventando al contempo, dopo molte rinunce attuate in nome di Fermina, preda ambita dalle donne che sceglie con cura tra coloro che era certo non l’avrebbero respinto, accettando per di più di non poter avanzare da lui alcuna pretesa di impegno.
Il momento a lungo atteso, contro ogni logica e probabilità, finalmente arriva. Come preannunciato sin dai primi capitoli del romanzo, Juvenal Urbino, ormai anziano, viene a mancare per un banale incidente casalingo, dopo un matrimonio trentennale, fatto di alti e bassi, di certezze e disillusioni, di sentimenti condivisi e persino di un doloroso periodo di separazione dovuto a un tradimento del dottore. Florentino, colto da prevedibile euforia, non è in grado né di congedarsi degnamente dalla sua ultima fiamma, una ragazzina di cui era il tutore, tragicamente innamorata di lui, né di attendere il termine di quella giornata luttuosa per presentarsi dalla donna che immagina già pronta a iniziare una nuova vita di coppia.
Ma Florentino per Fermina da molti anni rappresenta una sorta di “ombra di qualcuno che nessuno aveva mai conosciuto”, il ricordo di una “febbre d’amore” che mai aveva nemmeno intravisto nel marito, con la sua “autorità professionale” e il suo “fascino mondano”, da cui pure aveva sperato di ricevere altri doni come “la sicurezza, l’ordine, la felicità, cifre immediate che una volta sommate tra loro potevano forse assomigliare all’amore: quasi l’amore”. Juvenal Urbino era stato un compagno in nulla collaborativo e al quale fare da “domestica di lusso”, convinto assertore che il matrimonio fosse “un’invenzione assurda” che finisce dopo ogni notte d’amore e che va ricostruito ogni mattina, cercando di tenere a bada il tedio. Tuttavia, il loro rapporto era stato condotto nella persuasione che l’unica maniera di vivere insieme e amarsi fosse superare incomprensioni, rancori e sgarbi reciproci, perché “nulla a questo mondo era più difficile dell’amore”, più uniti e complici nell’ultima fase della loro esistenza che in qualsiasi altra.
Florentino, invece, si accorge del trascorrere del tempo solo dai cambiamenti osservabili sul volto di Fermina, che può scorgere solo nelle occasioni pubbliche, spaventato unicamente dall’idea che la sua degenerazione fisica preceda il momento in cui avrebbe potuto presentarsi a lei, ora entrata in una condizione, quella di vedova che, assieme a quella delle donne maritate, le madri e le nonne, è una fase in cui il computo dell’età si effettua alla rovescia, a partire, cioè, da quanto possa mancare alla dipartita. Ma, appunto, il suo momento è giunto e, una volta precipitatosi al cospetto della donna così a lungo amata, la reazione di quest’ultima, dopo prevedibile stupore, è di immensa rabbia per la sua evidente mancanza di tempismo e delicatezza di fronte alla quale l’uomo non può che ritirarsi mortificato.
Quale sarà l’epilogo? La febbre d’amore divorante e mai sopita di Florentino sarebbe riuscita a scalfire finalmente l’altrettanto granitico rifiuto di Fermina? Ma la rabbia non aiuta forse più ad avvicinarne che ad allontanarne l’oggetto? Contro cosa avrebbe dovuto combattere questa volta l’uomo, in luogo di un rivale: il disincanto dell’età, la mancanza di nuove attese, i pregiudizi sociali? Il suo solo obiettivo è che gli sia concessa un’unica possibilità, quella di poterle insegnare un nuovo modo d’amare, l’amore non come mezzo per ottenere qualcosa ma come “origine e fine in sé”, non mediato dalla vita coniugale, non ostacolato dalla trappole della passione, non falsato dalle apparenze menzognere delle illusioni. Florentino offre a Fermina, quindi, l’amore nella sua essenza, al di là dello spazio e del tempo oppure vissuto in un tempo caratterizzato da una densità diversa, come può esserlo solo quello in cui più ci si avvicina alla fine dell’esistenza.
Fiorella Ferrari
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