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Lettera al medico in manicomio
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Egregio professore, so che le è stato riferito che io non prendo «regolarmente» le sue medicine. Naturalmente si tratta dei soliti pettegolezzi di ospedale che purtroppo alle volte rovinano con la loro cattiveria la buona fede di chi crede nella lealtà del prossimo. È vero, qualche volta ho omesso il Nobrium perché non volevo cadere nel solito stato di incoscienza e volevo tenermi un po´ desta, un po´ attiva, ma se mai un ammalato non prendesse i medicamenti prescritti la cosa più grave non è nella omissione degli stessi ma nel proposito, assurdo e malato, di non volere guarire. Chi viene a riferirle queste cose dimostra un animo molto meschino ed io nella mia semplicità ed anche nella mia malattia mi rallegro di non essere tra le file di quelli che si chiamano «spie». […]
Vede che in questo momento il mio equilibrio è sano, però prima che io possa accedere ad una certa chiarezza occorre che lasci libero sfogo alle lacrime che comprendono tanti e tanti dispiaceri. Ad esempio proprio ieri ho visto un uccellino che giocava nella sabbia, era così tenero, così patetico, che vi ho visto raffigurata la mia creatura. Le parrà assurdo ma lei non può sapere da uomo cosa significa sentirsi palpitare dentro un altro cuore, sentirselo proprio per dei mesi, donarsi ed essere continuamente gratificata da questo amore nuovo che sorge. Come vorrei farglielo intendere e come vorrei pure che ella capisse che tutta la mia confusione altro non è che un grande contenuto dolore, tanto grande, quanto grande può essere la misura di un sacrificio umano.
L´ho stancata per dei mesi e forse lo farò ancora, stamattina mi aveva promesso delle medicine che poi non mi ha prescritte facendomi così intendere che mi trattava da povera esaltata. Ma se il dolore è esaltazione allora posso dire che tutto il genere umano è in questo stato e il mio dolore, il mio lutto per la morte della mia coscienza è il dolore di tutta la nostra povera comunità umana. Non ho fiducia nei medicamenti, no, glielo dico con franchezza, perché in questi mesi non mi sono più rallegrata di nulla e quando una cosa non si prende con quella fiducia che occorre non ha nessun risultato, perché solo la fede è la molla di tutto, guarigioni comprese.
Io per avere questa fede dovrei sentirmi amata e invece anche questa mattina mio marito non è venuto da me; adesso posso dirle sinceramente che malgrado la sua ignoranza, il suo poco sapere, lo amo profondamente e tutto questo amore l´ho gettato sopra di lei perché per anni sono stata frustrata, maltrattata, vilipesa. Caro dottore, da lei non mi aspetto proprio nulla, solo mio marito, con un cenno, un assenso, un atto di comprensione potrà guarirmi ed è proprio in questa direzione che io vorrei dirigerla.
Solo lui potrà, se vorrà, essere il mio medico, altrimenti la mia fine è già segnata. Se vuole aiutarmi è in questo senso che deve muovere la sua abilità. Adesso la lascio, ma ho passato con lei tante ore di calda fiducia, ho conversato, sono penetrata nel suo animo ed ella è penetrata nel mio come un padre. Quando le chiedo qualche cosa però non mi prenda in non cale perché mi vengono in mente adesso i bei versi di padre Davide Turoldo che dicono: «Io non ho mani che mi accarezzino il volto, duro è l´ufficio di queste mie parole».
E se anche ho tanto amato nella mia vita ciò non significa che la società mi debba condannare se nemmeno il Cristo ha condannato Maddalena ma l´ha ammessa fra i suoi seguaci. Perdoni il tempo che le ho rubato. Quando vengo da lei e le do del tu è come se parlassi con un angelo, qualche cosa che solo a me è dato di vedere e di sentire, qualche cosa di incorporeo che non ammette alcun desiderio. Perciò mi tenga per scusata.
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Alda Merini, Lettera al medico in manicomio
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