cctm collettivo culturale tuttomondo Storia di Kris
Storia di Kris da #CUORICONNESSI Cyberbullismo, bullismo e storie di vite online, 2023
“C’era una vita in cui le cose accadevano
seguendo un copione scontato.”
C’era una vita nella quale il tempo scorreva parallelamente ai tempi dettati dagli orologi, dal sorgere del sole e dall’arrivo della notte.
E tutto ricominciava da capo: la sveglia che suona, il latte sul fuoco e Kris che quando alzavo le serrande si girava dall’altra parte nascondendo la sua testa di riccioli neri dentro il cuscino, rosicchiando altri cinque minuti di sonno.
C’era una vita in cui le cose accadevano seguendo un copione apparentemente scontato, il pranzo della domenica con Kris che prendeva in giro la nonna, perché ci sentiva poco, e lei che si scandalizzava per il look di quel nipote particolare che rifiutava le convenzioni e le imposizioni. Kris che puntualmente litigava con il nonno juventino. Kris che è sempre stato romanista e sopra il suo letto c’è sempre stata appesa la maglia firmata da De Rossi. Nemmeno io che sono la mamma ho mai avuto il diritto di poterla spolverare, perché si trattava di una reliquia.
C’era una vita in cui Kris tornava sporco di fango dagli allenamenti in mountain bike ed io che dalla finestra gli urlavo di togliersi le scarpe prima di salire le scale di casa.
C’era una vita in cui ero costretta ad accompagnarlo nei negozi di abbigliamento più strani, perché era affascinato dal mondo del fashion, dagli abbinamenti cromatici forti e dai tessuti.
Kris è sempre stato un insieme di colori e come tutto ciò che non è classificabile, evidentemente, ha turbato l’anima dei classificatori seriali, quelli che senza una casella dove posizionare il nemico si sentono smarriti e inutili.
C’erano i weekend che trascorreva con il papà e la sua nuova compagna. Dopo un periodo difficile, erano tornati ad essere un padre e un figlio. Si divertivano facendo rafting, arrampicate in montagna e qualsiasi cosa fosse in grado di farmi stare in ansia. «Possibile che tu e tuo padre non siate in grado di fare un qualcosa che non sia pericoloso?» – gli domandavo spesso con rabbia mista a rassegnazione. E la sua risposta era sempre la stessa: «Mamma non rompere con tutte queste paranoie!» Poi mi sorrideva, mi dava un bacio in fronte e scappava via tuffandosi dentro il suo mondo che non conosceva pause.
Raramente mi sono goduta quel bagno di normalità; io che gettavo gli spaghetti nello scolapasta e lui già seduto a tavola che mi parlava delle ingiustizie scolastiche, delle tormentate vicende amorose delle sue compagne e che mi domandava se il pomeriggio sarei rimasta in casa, perché il corriere avrebbe dovuto consegnargli un paio di nuove sneakers. L’ennesimo della serie.
La felicità era ogni istante trascorso assieme, ma io non lo sapevo, troppo presa a non bruciare la frittata, a rispondere a una e-mail di lavoro o a sentire le news in tv.
La normalità è un tappeto di cose felici che calpestiamo con noncuranza e distrazione. Troppo spesso, quasi tutti ci dimentichiamo che essere felici non è poi così difficile; è sufficiente spalancare occhi e cuore illuminando ciò che amiamo, e ogni istante è quello giusto per farlo.
Ripenso alla preziosità di quella infinita catena di attimi vissuti assieme a Kris e provo quasi un senso di colpa per aver confinato la quotidianità tra le cose scontate e un po’ ordinarie che accompagnavano i giorni, i mesi e gli anni.
Quasi che tanta meravigliosa normalità l’avessi fatta scivolare via senza provare a trattenerla, ma il tempo non si conserva, al massimo possiamo imparare a viverlo.
Sono stata distratta e ingenua.
Pensavo che il pericolo nella vita di Kris potesse legarsi allo scendere le rapide di un fiume dentro un gommone o alle gare di mountain bike.
Chissà perché, mi passa per la mente il rumore del suo scooter che si mette in moto, lui che schizza verso la scuola e io che lo osservo dalla finestra. Come sempre, le mie ultime parole erano state «Vai piano, mi raccomando.» Lo vedevo così vulnerabile in sella al suo Scarabeo nero, in mezzo al traffico impazzito delle sette e mezzo della mattina. Il pensiero e la paura di un incidente mi attraversavano la mente ogni mattina che lo vedevo partire.
Immaginavo molte cose, però la vita non è ciò che immaginiamo, ma ciò che accade. E sono due cose diverse.
Stanza bianca. Pareti bianche. Luce del pomeriggio che filtra tra le veneziane semichiuse. Ogni secondo c’è quel bip emesso dalla macchina, che in teoria dovrebbe rassicurarmi.
È il battito del cuore di mio figlio che resiste mentre lui continua a fluttuare dentro un sonno che mi spaventa. Nessun movimento, solo tubi collegati che spuntano ovunque e poi quel bip che, da oltre sette giorni, è diventato l’unico segnale in grado di testimoniarmi che su questo letto della rianimazione c’è il suo corpo vivo. Però dove lui sia realmente, nessuno è in grado di dirlo. L’ho chiesto a tutti i medici e agli infermieri del reparto di rianimazione e la risposta è sempre stata la stessa: «Non possiamo saperlo, signora. Possiamo solo attendere e incrociare le dita.»
Attendere, per me, significa non vivere, o meglio, vivere immersa sul fondale di un oceano oscuro. Il tempo sospeso è un sospiro trattenuto all’infinito. Non conoscevo questo genere di viaggio. Di certo sono troppo fragile per affrontarlo, eppure eccomi qui, perché altro non è consentito fare.
Quando non si ha scelta ho scoperto che anche i deboli diventano forti.
Ieri pomeriggio è venuto il preside della sua scuola. Kris frequenta il secondo anno di un liceo scientifico. Mi ha abbracciata a lungo, nella sala d’aspetto della terapia intensiva, dicendomi che mai avrebbero immaginato una cosa del genere. Mi ha assicurato che quelli che hanno spinto mio figlio verso questo gesto estremo sono già stati individuati, poi, dopo un attimo di silenzio, ha aggiunto: «Adesso però concentriamoci sulla vita di Kris e preghiamo per lui.»
Questa mattina presto, prima di dare il cambio al mio ex marito, una signora gentile con la divisa della Polizia mi ha posto nuove domande, perché adesso bisogna ricostruire tutto. Occorre raccogliere le schegge di dolore che hanno colpito Kris come proiettili e metterle in fila, esaminarle e cercare di capire. Alcune le ho già recuperate: sono screenshot, stralci di chat e pensieri che Kris confidava esclusivamente a sé stesso.
Siamo tutti più cose e di questo ne sono sempre stata conscia. Le gabbie del pregiudizio etichettano, classificano, includono ed escludono. Sinistra o destra, alto o basso, buono o cattivo, bianco o nero. In questo strano mondo che stiamo attraversando, sono le sfumature ad essere venute clamorosamente meno e le sfumature rappresentano l’essenza della vita.
Facile affidarci agli stereotipi, costano poco e non richiedono l’elaborazione di alcun pensiero.
Per Kris, il periodo delle elementari fu molto bello e arricchente. Mai un problema e le insegnanti non perdevano occasione per raccontarmi che quel bambino aveva una sensibilità spiccata e un un’intelligenza viva. Era quello delle domande. I confini del suo sapere erano in costante espansione e la sua curiosità per le cose del mondo non era mai appagata.
Si innamorò presto di tre cose: della Roma, che andava puntualmente a vedere con mio fratello, della mountain bike, perché lo faceva sentire libero, ma soprattutto del mondo del fashion.
Compresi sin da subito che dietro a quella passione precoce per la moda si nascondeva un talento. Forse ancora neppure Kris era in grado di intuirlo, ma sarebbe stato il complicato e competitivo mondo della moda, l’universo entro il quale avrebbe potuto sprigionare la sua creatività.
La mia sola preoccupazione non era dettata da quella passione, bensì dalla paura che specialmente a scuola Kris avrebbe potuto subire vessazioni di vario genere.
Troppe sfumature, troppo sensibile, troppo distante dal pensiero unico, troppo “essere tante cose messe assieme” per venire accettato da chi vive catalogando il prossimo.
Mi viene in mente la mattina in cui lo vidi mettersi come nulla fosse lo smalto alle unghie. Il mio primo istinto fu quello di impedirglielo, invece riuscii a trattenermi e mi limitai a chiedergli se fosse uno dei miei o se lo avesse comprato. «L’ho comprato, ma’! Con questa felpa e queste scarpe mi piace un casino!» Non aggiunsi nulla. Cosa avrei potuto dirgli? Che lo smalto lo possono mettere solo le donne? Riflettendoci, mi ritrovai ad apprezzare la sua assenza di preconcetti.
Il silenzio di un reparto di terapia intensiva è denso, quasi palpabile.
Nella grande sala, i letti sono distanti tra loro, piccole isole asettiche a cui ci si aggrappa per evitare la morte, si entra uno alla volta e si parla sottovoce, con monologhi, perché da quei letti non possono arrivare risposte.
Entra un dottore e mi chi chiede a voce bassa come va. Indossiamo entrambi la mascherina, eppure mi bastano i suoi occhi per capire che la sua domanda non è di routine. E gliene sono infinitamente grata. Il dolore non è mai routine per nessuno e dovremmo tenerlo sempre ben presente.
Gli rispondo che vivo nel mondo dei sospesi, di quelli che attendono anche il semplice movimento dell’ultima falange del mignolo, che sperano di scorgere un battito di ciglia o l’impercettibile spostamento di un piede. Il medico getta uno sguardo alle macchine, legge parametri, mi guarda per un paio di secondi e poi continua il suo giro in quel reparto dove la vita e la morte non smettono mai di inseguirsi.
Gli vorrei urlare dietro di fare qualcosa per mio figlio, perché non merita di finire così la sua vita.
Gli vorrei urlare dietro che sono perseguitata dalle immagini del suo funerale ed è devastante. Più le caccio lontano e più loro si ricompongono nella mia mente. Non ho più il controllo di nulla.
Sapevo che quel figlio ipersensibile avrebbe dovuto soffrire e combattere per conquistare la propria felicità, ma, a parte un episodio isolato, tutto mi era sempre sembrato gestibile. Frequentava la quinta elementare, Kris, quando una sera di primavera, a cena, scoppiando a piangere mi raccontò che qualcuno aveva riempito i suoi libri di scuola con offese di ogni genere. Tutte mirate alla sua presunta omosessualità.
La più terribile era scritta a pennarello sulla prima pagina del libro di italiano: «I froci devono morire».
Viviamo immersi in una società che apparentemente è pronta a mostrarsi evoluta e rispettosa da chi abbandona gli schemi, ma all’interno di una quinta elementare tanti buoni propositi a volte rimangono uno sterile esercizio teorico. Il giorno successivo andai a parlare direttamente con il
dirigente che si mostrò molto comprensivo, ma di fatto, forse perché l’esperienza delle elementari era arrivata alla fine, accadde poco o nulla e nessuno riuscì a identificare i responsabili.
Niente sembrava comunque scalfire la sua passione per la moda. Anche durante il periodo delle scuole medie la sua gioia era girare per i mercatini e comprare a costi bassissimi capi di abbigliamento di ogni genere, sempre originali e distanti dai soliti outfit. Il suo modo di vestirsi era per certi versi sperimentale. La sua era una costante ricerca tra tessuti e colori a cui aggiungeva accessori scovati in qualche bancarella.
Certo che poi, durante l’intervallo, prediligesse parlare con le compagne piuttosto che con i compagni. Questione di affinità, di interessi comuni e per certi versi di maturità.
Le sue movenze delicate e la sua risata cristallina non erano in linea con i modi di fare dei suoi compagni. Potrei usare il termine “effemminato” per inquadrare alcuni atteggiamenti di Kris, ma non a tutti piace l’idea che uno sia libero di seguire il proprio istinto.
Temevo che quel suo essere diverso prevedesse un prezzo da pagare, ma non avevo mai pensato di limitarne l’estro e la fantasia.
Non esisteva un motivo al mondo per censurare l’outfit di mio figlio. Perché vietargli di indossare una camicia di raso o delle sneaker rosa? In base a quale principio avrei dovuto muovergli degli appunti? No. Kris aveva il diritto di essere ciò che sentiva di essere, partendo dal presupposto che i suoi comportamenti non offendevano alcuno e che lui rispettava gli altri. Le sue non erano provocazioni. Lui era così. Parlo al passato perché Kris in questo attimo è nella terra di nessuno, ma sono certa che tornerà. O meglio lo spero, perché la parola certezza è scomparsa dal mio vocabolario interiore.
La realtà è in grado di cancellare pagine che con supponenza immaginavamo già scritte, riscrivendole a suo piacimento.
Sul comodino d’acciaio che si trova accanto al letto di Kris c’è un bicchiere di vetro capovolto e io sono la mosca finita dentro quella prigione trasparente.
La realtà assomiglia a quelle pareti lisce e invalicabili. Nessuna via d’uscita, inutile agitarsi, inutile disperarsi, restano solo l’attesa e la speranza che qualcosa o qualcuno ci venga a liberare. Resta la fede per chi la possiede.
Parametri stabili. Da un paio di giorni, i medici usano definire così le sue condizioni, ma quando io domando se questo significhi che le cose stanno andando leggermente meglio, loro si limitano a dire «Vedremo. Procediamo un giorno alla volta.» Nei loro sguardi e nel loro tono di voce cerco disperatamente di scorgere un segnale diverso, un briciolo di ottimismo a cui aggrapparmi, ma niente…
Sono arrabbiata con me, che non ho capito, con Kris, che non ha parlato, con il padre, che lo portava in gommone senza rendersi conto che suo figlio stava diventando altro.
È stato molto abile nel riuscire a nascondere tanta sofferenza. Kris ci ha ingannati tutti, ma con la morte nel cuore devo ammettere che non è stato neppure così complicato. Siamo tutti così maledettamente concentrati su noi stessi. Questo è il problema. Vorrei poterla riscrivere la storia di mio figlio, vorrei prenderlo da una parte, chiuderlo in una stanza e obbligarlo a vomitarmi addosso tutto quel dolore che si teneva dentro. I suoi silenzi negli ultimi mesi erano aumentati progressivamente. Aveva delle pause. Si estraniava, quasi che fosse finito nel mezzo di un banco di nebbia, e poi riemergeva tornando ad essere quello di sempre.
Il paradosso è che avendo iniziato a lavorare in smart working, pur essendo in casa, il mio tempo libero era sensibilmente diminuito e le occasioni di dialogo vero si erano diradate. Spesso erano semplici comunicazioni di servizio del tipo: «Come è andata la scuola?» – cui faceva seguito la solita
risposta – «Tutto bene mamma.» Non era vero che stesse andando tutto bene e io non mi sarei dovuta accontentare di quelle frasi vuote e di circostanza. Più di una volta avevo tentato di aprirmi un varco nei suoi pensieri, ma lui puntualmente mi ripeteva che non dovevo preoccuparmi perché si trattava solo di un periodo un po’ così e poi cambiava discorso oppure si rintanava in camera.
Ultimamente mi aveva anche urlato in faccia delle brutte parole, cosa non da lui: «Mamma, lasciami in pace e fatti i cazzi tuoi!» Quanti pensieri, quante ipotesi. Inizialmente immaginai che dovesse fare i conti con la sua identità sessuale, forse stava vivendo un amore non corrisposto o, più probabilmente, stava attraversando le inevitabili tempeste scatenate dall’adolescenza.
Che Kris potesse essere omosessuale lo avevo immaginato spesso e prima o poi ero certa che quell’aspetto delicato del suo essere lo avremmo dovuto affrontare. Ero pronta a farlo senza alcun problema. A volte però “prima o poi” è troppo tardi. Troppo tardi!
Non è importante che sappiate come Kris abbia deciso di farsi del male e neppure dove e quando. Troppo dolore, immagini che riemergono, ma che non ho la forza di tradurre in parole. L’ho già dovuto fare di fronte alla Polizia un paio di volte. Ora basta. Adesso, quello che conta è vincere assieme questa battaglia contro la morte.
Per ricomporre il mosaico di sofferenza che ha condotto Kris fino a questo letto, che sembra uscito da un film di fantascienza, ci sono voluti un paio di giorni.
In questa settimana di orrore, il momento in cui ho dovuto usare violenza verso me stessa è stato quando ho deciso di accendere il suo smartphone. Password: «Capitanfuturo»; perché è così che i tifosi chiamavano Daniele De Rossi. Kris me l’aveva svelata ridendo un giorno a pranzo di fronte a un cheeseburger, tanto sapeva che per nessun motivo al mondo avrei violato la sua privacy e mai lo avrei fatto se non si fosse materializzato questo incubo.
Mi ero seduta alla sua scrivania, avevo respirato profondamente cercando di controllare i battiti del cuore, le mani che tremavano, la password inserita e poi via, dentro il suo inferno personale. Lentamente, chat dopo chat, dialogo dopo dialogo, tutto aveva iniziato a prendere forma. Una trama perfida che, come una ragnatela, aveva finito con l’avvolgerlo senza pietà.
Negli ultimi mesi lo avevano ferito con centinaia di messaggi.
Più di una volta mi ero dovuta fermare, poi cercando di ricorrere ad ogni briciolo di forza e di autocontrollo ero tornata ad immergermi in quell’universo di parole affilate come lame, frasi spietate e crudeli puntate contro mio figlio come una pistola e, alla fine, a quanto pare, l’obiettivo lo avevano raggiunto.
Era un gruppetto composto da quattro suoi compagni di classe a torturarlo. Qualcuno di loro, ancora non sappiamo chi, ma ci penserà la Polizia Postale a stabilirlo, era riuscito a sbirciare le note che Kris utilizzava come un diario. Nei suoi appunti, descriveva sogni, pensieri intimi e tante riflessioni.
Chi aveva violato i suoi segreti non si era limitato a leggerli, ma aveva pensato bene di farne degli screenshot. Per evitare che qualcuno potesse pensare a un fake, aveva, o avevano, provveduto anche a fotografare il telefono. Insomma, nulla era stato lasciato al caso.
«Stasera ci divertiamo, brutto finocchio. Abbiamo una bella mailing list a cui inviare questo tuo dolce pensiero.» Facendomi forza, ero riuscita a leggere lo screenshot ricavato dai pensieri di Kris: «Oggi è arrivato un nuovo compagno di classe, si chiama Michele ed è di Torino. Cacchio se mi piace! È un figo da paura!!» Poi, a seguire, un altro sciame di pensieri terribili. Una grandinata di offese e di minacce da far gelare il sangue. «Tesoro. Stasera a mezzanotte inviamo lo screenshot a Michele, poi deciderete dove fare il viaggio di nozze! Ahahahah!» «Frocio del cazzo, ammazzati che ti conviene! Te lo
consiglia un amico.» «Ma lo sa De Rossi che una delle sue ammiratrici si chiama Kris e si mette il chiodo fucsia?? Scrivigli una letterina d’amore e poi vediamo!! Ahahahah!!» «Lo smalto lo metti anche quando esci con la mammina per comprarti i vestiti da checca??? Ahahahah!!!»
C’era voluto poco a comprendere che la cosa che più lo terrorizzava era l’ipotesi che rendessero pubblici i suoi pensieri.
Quelle riflessioni intime si specchiavano nella sua anima, a quelle note aveva consegnato paure e sentimenti, fragilità e certezze. Era il suo diario segreto, quello che quando frequentava le scuole medie custodiva nell’ultimo cassetto dell’armadio sotto uno strato di biancheria intima.
Era un libretto dalla copertina rigida che si chiudeva con un piccolo lucchetto, a lui affidava quasi ogni sera i suoi pensieri.
«Come la prenderà Michele quando saprà che lo ami?? Però sarà interessante vedere anche cosa ne penserà il preside! Basta froci in classe! Ammazzati brutto parassita!» «Goditi questo weekend! Lunedì postiamo tutti i tuoi dolci pensierini segreti. Sei finito, brutta checca isterica!»
Come posso descrivervi cosa prova una mamma nel leggere certe cose?! Aiutatemi voi a trovare le parole giuste, ma io non penso che esistano.
Proseguivo nella lettura e, nel frattempo, una parte di me stava morendo assieme a mio figlio, disteso come una statua di sale nel cuore di un reparto di terapia intensiva.
C’è qualcosa che ti si spezza dentro e già sai che mai più niente sarà come prima.
No. Non pensate di poter comprendere ciò che mi si muove dentro. L’errore più grande in questi casi è dirmi con un filo di voce «ti capisco», come hanno fatto i vicini di casa e tanti altri.
Solo io posso capire, gli altri no. Al massimo, possono abbracciarmi e sussurrarmi «ti sono vicino», ma nessuno, tranne una mamma o un papà, è in grado di comprendere.
Apprezzo il silenzio del prof di italiano, che il giorno dopo il fatto è venuto in ospedale, mi ha abbracciato, mi ha lasciato una rosa bianca tra le mani e poi se ne è andato in silenzio, scomparendo in fondo al corridoio.
«Come è possibile che a una checca isterica piaccia fare cose da uomo, tipo vedere le partite e andare in bicicletta? Cazzo c’entri con la Roma? Fai ginnastica artistica brutto frocio! Sei un concentrato di merda!»
Quando avevo letto questo altro terribile messaggio mi era venuto alla mente un pensiero di Alda Merini, la mia poetessa preferita: «Chi decide chi è normale? La normalità è un’invenzione di chi è privo di fantasia.»
Prendo una mano di Kris tra le mie, è calda e docile, nessuna resistenza.
La stringo cercando di trasferirgli qualcosa che assomigli alla vita vera, vorrei pronunciare parole che non mi vengono e allora rimango così, in silenzio, incollata a quella mano sottile che prima è stata la mano di un bimbo che si aggrappava al mio pollice, tentando di succhiarlo, poi la mano di un bambino che stringevo mentre attraversavamo la strada verso la scuola elementare e, poi la mano di un adolescente che, con la velocità di un pianista, correva sulla tastiera dello smartphone per scrivere di tutto.
Kris era stato ingoiato da questo incubo fin dall’inizio dell’anno scolastico, si era difeso in tutte le maniere, aveva cercato con decine di messaggi di indurre i suoi tormentatori alla ragione, di convincerli a farla finita, li aveva persino implorati. Al culmine dell’esasperazione li aveva anche
maledetti. Resta il fatto che qualsiasi strategia, qualsiasi sua risposta non aveva fatto altro che infuocare ulteriormente la situazione.
Ed io? Io non mi ero accorta di nulla: smart working, e-mail, spesa, internet, rata dell’assicurazione, conference call, palestra, visita medica, telegiornale, film, lavatrice, aspirapolvere, gommista e dentista. Nel mezzo di questo slalom, mi ero dimenticata di approfondire il suo malessere,
lo avevo giudicato transitorio e, invece, mi sbagliavo.
Quel che resta, in mezzo all’abisso del rimpianto, è la sua mano inerme tra le mie. Nient’altro che questo.
Dal polso magro e robusto, riesco ad avvertire il battito del suo cuore, mi adatto a quel ritmo e cerco di uniformarlo al mio, in modo di avere i cuori connessi e vivere dentro lo stesso respiro. Vorrei fondere le nostre vite e condividere con lui anche questa assenza. Ovunque ora si trovi, pagherei
qualsiasi prezzo pur di potergli essere accanto. Pensieri folli, fantasie e poi, in maniera più concreta, ripercorro le parole pronunciate dalla Dirigente della Polizia Postale: «Il reato ipotizzato è quello di istigazione al suicidio e non è cosa da poco». Con garbo mi aveva spiegato che il gruppo
era composto da cinque ragazzi. Per quattro di loro, tutti sedicenni, si sarebbe ugualmente prospettato un processo penale, nonostante la minore età.
Per il quinto del gruppo, che aveva compiuto diciotto anni, la situazione sarebbe stata ancora più complicata.
Mi era venuto istintivo domandarle a che pena sarebbe potuto andare incontro e appena terminata la domanda notai in lei un certo imbarazzo.
Dopo una pausa tentò di trovare le parole giuste per spiegarmi in modo semplice quello che era il quadro penale: «Beh, essendo maggiorenne, se dichiarato
colpevole, potrebbe farsi fino a cinque anni di carcere». Si prese qualche altro secondo per poi aggiungere con un filo di voce: «Questo se Kris riuscirà a sopravvivere.» Rimase in silenzio ma ci pensai io a riallacciare il suo discorso con una domanda più diretta di un pugno nello stomaco: «E se
invece mio figlio dovesse morire?» Prima mi guardò negli occhi e poi aggiunse con una specie di sussurro: «Se Kris non dovesse farcela, il maggiorenne potrebbe rischiare fino a dodici anni di carcere; si tratta di un reato molto grave, ma non creda che anche per gli altri sarà una passeggiata.
Però, adesso pensiamo al nostro Kris. Vede, anche io sono mamma di un adolescente». Mi abbracciò e poi se ne andò accompagnata da un agente.
Sono seduta accanto a mio figlio da quasi due ore e tra poco, come da regolamento, dovrò uscire dal reparto.
Con la mano destra frugo nelle tasche del giubbotto di jeans appoggiato sulla spalliera della sedia e recupero un foglio spiegazzato. Si tratta di una copia del sintetico messaggio che Kris ha lasciato prima di alzare bandiera bianca. L’originale, ovviamente, è nelle mani della Polizia.
Sono stata io a trovarlo, era accuratamente riposto sotto il suo cuscino. L’ho già letto migliaia di volte, studiandone la calligrafia e persino le virgole; nella mente non riesco a smettere di ricostruire quella scena. Quanta disperazione aveva dentro quando si è seduto alla sua scrivania?! Solamente il pensarlo mi provoca un dolore fisico lacerante. Eccomi di nuovo, con quel foglio in mano, alla ricerca di un qualcosa che non troverò mai.
Quanta rabbia Kris, quanta rabbia. Avresti potuto chiedere aiuto e certamente ti saremmo stati tutti accanto. Uniti come sempre. Avresti potuto confidarti, alleggerendo quel fardello.
Sicuramente ne saresti uscito fuori da vincente, sicuramente ci saremmo trovati ancora più vicini. Invece, eccoti sdraiato su questo letto che non ti appartiene.
Ma quelli che ti hanno fatto tutto questo, un’anima ce l’avranno? Gli sarà mai balenato per il cervello che stavano annichilendo un essere
umano?
Non ho nessuna risposta, spero solo che paghino. Apro il foglio che è piegato a metà e ricomincio a leggere.
«Chiedo scusa a tutti. Questo mondo non mi appartiene, troppa cattiveria e troppo egoismo. Negli ultimi mesi sono stato umiliato, deriso e anche picchiato (questo non l’ho mai detto, ma quell’occhio nero e i lividi sulle costole non me li sono procurati cadendo con la mountain bike, mi hanno aggredito nel parco, quei vigliacchi). Ho sempre cercato di parlare, di farli ragionare, ma non c’è stato verso. Il dolore più grande, però, è un altro. È stato vedere che tutti sapevano, ma nessuno ha pensato di aiutarmi, mi hanno lasciato solo. Jim Morrison diceva “Non aver paura della morte… fa meno male della vita” e a me la vita sta facendo troppo male.»
Ripiego il foglio e lo ripongo nuovamente nella tasca del giubbotto. Le due ore sono scadute e fuori il sole è già tramontato. Mi alzo, bacio la fronte di Kris ed esco da quella stanza più silenziosa di un acquario. Aspettiamo che arrivi domani, forse le cose andranno meglio. Chissà.
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