collettivo culturale tuttomondo Paolo Scanagatta (Italia)
immagine: disegno fatto da Michele per il dott. Scanagatta
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Empatia, compassione e non solo: la lezione appresa da un bambino malato di Paolo Scanagatta (Italia)
La storia che segue descrive una situazione che potrebbe accadere nella vita professionale di ogni medico, soprattutto in campo oncologico.
Michele era un bambino bello e sano che adorava il calcio la musica rock e guardare le gare di rally e aveva solo nove anni quando gli venne diagnosticato un sarcoma di Ewing un tumore toracico raro e aggressivo
Di colpo, la sua vita e quella della sua famiglia furono sconvolte da referti ospedalieri, chemioterapia, interventi chirurgici, disabilità, dolore e sofferenza. Nonostante tutto Michele non smise mai di sorridere. Il modo migliore per descriverlo è dire che era un ragazzino molto intelligente. Lo incontrai la prima volta pochi giorni prima dell’operazione e immediatamente mi impressionò sia per la sua capacità di pensare che la sua forza di volontà.
Quel giovane uomo volle vedere le immagini radiologiche della Tac e mi accorsi con sorpresa che sapeva interpretarle cosa che i suoi genitori, ad esempio, non erano in grado di fare. Mi spiegò quindi che aveva fatto in autonomia delle ricerche su internet studiando anatomia, oncologia e chirurgia e aggiunse che voleva guarire in modo da diventare lui stesso un chirurgo magari proprio un chirurgo toracico.
Io rimasi catturato da quel ragazzino di 9 anni come non mi era mai capitato nella mia carriera. Lo guardai e fu come rivedere me stesso indietro nel tempo, negli anni.
Lo abbiamo operato. Dopo l’intervento tutto proseguiva bene, Michele si riprendeva molto rapidamente grazie alla sua forza di volontà e alle sedute di fisioterapia che gli permettevano di recuperare al meglio l’uso del suo braccio destro. Riprese la chemioterapia secondo il protocollo abituale per la risposta favorevole e tutto sembrava a posto.
Trascorsi cinque mesi però purtroppo ci fu una recidiva del tumore a livello osseo.
Michele venne curato con un’altra chemioterapia e combatté con grande coraggio. In quel periodo era solito venire nel day hospital pediatrico con i suoi genitori e spesso andavo a trovarlo. “Perché un giorno non mi porti in sala operatoria a vedere un intervento?” mi chiese più volte in quelle occasioni. Mi diede anche un disegno: c’ero io a lavorare in sala operatoria, con guanti, bisturi, elettrocauterizzatore (con il suo fumo) e tutti gli strumenti chirurgici, come la sua mente brillante immaginava che fossero.
Michele non è mai venuto in sala operatoria con me; dopo una lotta di pochi mesi contro il cancro alla fine è morto in una mattina di novembre. Aveva dieci anni e sette mesi.
Io ne fui travolto. Il dolore fu enorme ed ero talmente coinvolto che vivevo la sua scomparsa come se fosse morta una parte di me. Sapevo bene che la compassione e l’empatia tra un medico e i suoi pazienti era stata analizzata, studiata e descritta in moltissime ricerche scientifiche e che era stato anche studiato come la vita professionale e la vita privata dei chirurghi siano tra loro connesse e influenzate. Nonostante ciò quello che provavo era molto diverso e andava al di là dell’empatia. E’ stato come guardare me stesso attraverso una macchina del tempo mentre bambino uscivo sconfitto nella battaglia per la vita.
Fu una grave sofferenza per me e per diverso tempo. Poi mi ricordavo dell’ultimo giorno in cui ci vedemmo nella sala d’attesa dell’ospedale, dieci giorni prima che mancasse. Era sotto morfina per i forti dolori che accusava ma era in piedi con un sorriso coraggioso sul viso. Io gli ho toccato il braccio e lui fece subito una smorfia di dolore che però svanì velocemente in un sorriso. “Hey dottore! Ricordati che nel braccio ho l’ago sottocutaneo!” mi disse “Oh scusa, giovanotto, me ne ricorderò!” “Non importa, comunque devi ricordarti di portarmi con te in sala operatoria, qualche volta!” E si mise a ridere.
Finalmente ricordando che quest’episodio capii che Michele mi aveva dato una grande lezione e che io l’avevo imparata senza alcun dubbio. Ero stato coinvolto nel suo caso più di quanto mi fosse mai capitato con qualsiasi altro paziente terminale e la lezione era questa: a volte ti ritrovi coinvolto nella dinamica di immedesimazione tra medico e paziente e semplicemente non puoi farci niente.
Michele, il mio paziente bambino, il mio amico, il me stesso allo specchio nella macchina del tempo se ne è andato e io non riesco a superarlo semplicemente perché non voglio superarlo.
E, da allora, lui è in sala operatoria con me. Ogni volta.
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Empathy, compassion and beyond: the lesson learned from a child patient by Paolo Scanagatta (Italy)
The following story describes a situation which could happen in the professional life of every physician, especially in the oncology field.
M. was a healthy handsome boy, who loved football, rock music and watching rally races and he was just nine when he was diagnosed with a thoracic Ewing’s sarcoma. Soon the world turned upside down for him and his family, with hospital referrals, chemotherapy, surgical operation, disability, pain and sufferance.
However, he never stopped smiling. The best way to describe him is saying he was brilliant: we met the first time few days before the scheduled surgery, and the way he talked to me just stunned me through his thinking and willing. That young man wanted to (and, better, insisted to) see the CT scan, and he was able to understand it when he saw the images on the screen, while his parents can’t. He said that he, the nine-year old child, had studied on the web: he studied anatomy, science, oncology and surgery; he told me that he wanted to get well in order to become a surgeon, maybe a thoracic surgeon.
I was caught, as it never happened before in nearly 20 years of clinical practice. I looked at him and it was just as if I was looking back at me when I was ten.
We operated him. It was a neat intervention and he had a good and quick recovery, after appropriate (albeit painful) physiotherapy in order to recover the whole function of his right arm. Histology revealed a complete pathologic response so he carried on chemotherapy according to the so called “good responder arm“. Sadly, after five months a distant bone recurrence occurred. M. was treated with chemotherapy again, and he fought bravely.
At that time, he used to come to the pediatric outpatient service with his parents, and I often went to visit him when he was there. “Why don’t you take me to the operatory room, someday?” he asked me several times on that occasions. He also gave me a drawing : there was me working in the theatre, with gloves, scalpels, electrocautery (with its smoke) and all the surgical tools, as his brilliant mind imagined them to be.
He never came to the operatory room with me; after a struggle of few months against cancer he eventually passed away in a November morning. He was ten years and seven months old.
I was astonished and I was in grief, because I coudn’t help getting involved, and I mourned his passing just like a part of me had gone away. I knew well that physician compassion and empathy have been analyzed, described and studied several times, and so the daily challenge in the professional life of a pediatric oncologist, as well as surgeon’s humanity and influence of personal life in professional performing.
However what I experienced was far different, it was beyond empathy, it was just as if I were looking to myself in a time machine, and seeing the young me losing the battle for life. It was a real pain in the neck for me, for several days. Then I recalled the last time we met, in the waiting room of the Hospital, about ten days before his passing. He had his subcutaneous morphine pump going on, but he was standing up, with a brave smile on his child-face. I touched his arm with my hand and he suddenly showed an expression of pain, that rapidly disappeared in a smile: “Hey, man! Please remember I have the subcutaneous needle there!”; “ Oh sorry, young man, I will take care in the future!”; “Never mind, anyway you must remember to take me to the theatre, sometimes!” And he laughed and smiled.
I realized that M. has taught me the lesson, and I have learned it. Without any doubt I got involved with him more than with other dying patients, nevertheless the lesson is: sometimes you get involved, with the overcoming of doctor-patient empathy, that you can’t help getting involved. M., my child patient, my friend, my self-image in the time machine mirror is gone and I can’t get over it, because I don’t want to get over it.
And, from then to now, He is in the operatory room with me. Every time.
fonte: Scanagatta P, Empathy, compassion and beyond: the lesson learned from a child patient, Journal of Pain and Symptom Management (2017)
Traduzione: Carla
Paolo Scanagatta è Dirigente Medico Struttura Complessa Chirurgia Toracica Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano
Paolo Scanagatta MD, Thoracic Surgeon presso Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori Milan (Italy)
immagine: disegno fatto da Michele per il dott. Paolo Scanagatta