cctm collettivo culturale tuttomondo Mattia Torre Figli
video: Valerio Mastandrea legge il monologo Figli di Mattia Torre
Figli di Mattia Torre (Roma, 1972 – Roma, 2019)
I figli invecchiano. Ma non invecchiano loro. Invecchiano te. I figli ti invecchiano perché passi le giornate curvo su di loro e la colonna prende per buona quella postura; perché parli lentamente affinché capiscano quel che dici e questo finisce per rallentare te; perché ti trasmettono malattie che il loro sistema immunitario sconfigge in pochi giorni e il tuo in settimane; perché ti tolgono il sonno per sempre. Assonnato e curvo, lento, acciaccato, sei nella terza età.
I figli ti invecchiano anche perché quando arrivano al mondo mettono fine, con violenza inaudita, a quella stagione di aperitivi feste e possibilità che ti sembravano il senso stesso della vita. Murato in casa e reso cieco da una congiuntivite, hai un vago ricordo di ciò che eri e di ciò che avresti ancora potuto esprimere, ma non sai più dire con precisione, hai solo molto sonno. I figli si insinuano nella tua mente in modo subdolo e perverso. Se sei con loro, ti soffocano; se non ci sono, ti mancano. Ci è successo di voler scappare dopo troppe ore insieme a loro, e poi trascorrere la serata in un ristorante a guardare le loro foto sul telefonino, straziati da una nostalgia senza senso perchè li avresti rivisti dopo un’ora…un’ora e mezza.
Parlo di figli al plurale perché quando ne hai uno solo l’impresa sembra ancora fattibile; magari il tuo primo e unico figlio è gentile, dorme, e sebbene l’assetto famigliare è nuovo, hai ancora l’illusione di essere te stesso, ma se per caso arriva il secondo, arriva come una deflagrazione. Nove mesi dopo che è nato il tuo secondo figlio, il tuo appartamento è un 41 bis. E quand’è così ogni scusa è buona per uscire: si litiga per chi deve fare la spesa o pagare il bollo della macchina, ci si catapulta fuori alla prima citofonata dell’Ama, e la sera ci si affaccia dalla finestra del bagno valutando le possibili conseguenze di un salto nel vuoto. Quando poi finalmente riesci a uscire di casa (la baby-sitter è la tua nuova esaltante, costosissima droga) ti rendi conto che il mondo fuori è ormai diverso e non fa più per te; la gente è vitale e allegra, tonica, e crede nel futuro. E tu ti aggiri a Trastevere come un revenant, lo sguardo perso, l’andatura incerta, l’inconfessabile desiderio di voler solo tornare a casa.
Inoltre perdi le tue certezze ideali; provavi una pena infinita per quelli che odiavano i weekend e bramavano il lunedì perché il lavoro li teneva lontani dai figli: ora sei così anche tu. Guardavi con sufficienza quelle case anni ’60 con una zona pensata per la tata: le desideri con tutte le forze e la notte fai sogni catastali. Ti sembrava sconcio che una famiglia viaggiasse con la filippina al seguito: non sogni altro. Sei un conservatore, non ti riconosci allo specchio e va benissimo così.
I figli poi tirano fuori la tua rabbia, perché devi saper dire NO anche quando non ne hai voglia, o quando quel giorno non hai la struttura emotiva per farlo. Quando lo esorti ad addormentarsi da solo per esempio, lui ce la fa, bravissimo in solitudine, tu sei attanagliato da un tale senso di colpa che insieme alla madre, distrutta pure lei, vai a svegliarlo e gli chiedi “Come va? Com’era? Come è andata? Che ne pensi di st’esperienza? Incredibile!” e lui ti guarda con un senso di confuso disprezzo, girandosi assonnato dall’altra parte. I figli invece alla fine ti invecchiano, perché sei già vecchio. In paesi dinamici ed evoluti, dove la democrazia non è un concetto così imprendibile come da noi, i genitori hanno 25 anni, sono forti, flessibili, giustamente incoscienti. Qua se diventi padre intorno ai 35, 36, 38 anni? Tra gli altri genitori del nido vieni detto “Il giovane”; intorno a me, padri di cinquanta o sessant’anni con lo sguardo spento, la lombalgia e l’alito cimiteriale di chi non dorme da mesi. E hai comunque l’impressione che molti di loro, sono più in forma di me.
Ma più di tutto, conta ciò che i figli fanno alla tua mente. I figli ti fanno ripiombare, con una forza che neanche l’ipnosi, nel tuo passato più doloroso e remoto: l’odore degli alberi alle otto del mattino prima di entrare a scuola, la simmetrica precisione dell’astuccio, la catena sporca della bici, le merendine, la ghiaia, le ginocchia sbucciate. Questi ricordi, non so dire perché, sono la mazzata finale. La vita stessa, che credevi di aver incasellato in categorie discutibili ma tutto sommato valide, o comunque tue, sfugge via. Sei una piccola parte di un tutto più complesso e i gin-tonic hanno smesso di darti l’illusione dell’eternità. Sei un pezzo di un grande ingranaggio, e siccome siamo in Italia, l’ingranaggio è vecchio, arrugginito e si muove a fatica. D’altra parte, il tuo cuore non è mai stato così grande.
da In mezzo al mare, 2003
Mattia Torre (Roma, 1972 – 2019) è stato uno sceneggiatore, commediografo e regista italiano, noto per aver collaborato, insieme a Luca Vendruscolo e Giacomo Ciarrapico, alla sceneggiatura della serie televisiva Boris (tra il 2007 e 2010).
Durante gli anni della sua formazione nei teatri della Capitale, Torre conosce Ciarrapico con il quale, agli inizi degli anni ‘90, scrive i suoi primi testi teatrali tra cui L’ufficio, Tutto a posto e Piccole anime. Nel 2002 scrive con Vendruscolo il film Piovono mucche, mentre nel 2004 debutta come autore televisivo: per otto anni si dedica alla produzione di Parla con me, programma condotto da Serena Dandini su Rai 3.
Grazie alla serie Boris, Mattia Torre raggiunge una grande notorietà: tra le altre importanti attività, firma lo show di La7 The Show Must Go Off e dirige la commedia Ogni maledetto Natale. Nel 2018 firma la sua ultima serie tv intitolata La linea verticale, basata sul libro autobiografico in cui il regista parla della sua malattia e della sua esperienza nel reparto oncologico dell’ospedale Regina Elena di Roma. Nel luglio 2019 Torre, all’età di soli 47 anni, muore di cancro.
Il suo ultimo film Figli, le cui riprese iniziano poco dopo la sua morte, ha ottenuto il David di Donatello come migliore sceneggiatura.
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