cctm collettivo culturale tuttomondo Giovanna Larosa
Ponte arcobaleno di Giovanna Larosa (Palo del Colle)
È primavera, ma nel parco il cielo è grigio, impenetrabile, i vialetti deserti, gli alberi ondeggiano inquieti, le foglie emettono gemiti ed un vento sibillino trascina un eco indefinito, tipo un ridacchio di bambini. Un cane sonnecchia sotto una pensilina indecorosa, qualcuno deve averla usata come rete da calcio e non avrà retto ai ripetuti colpi.
Cammino lungo le staccionate ammuffite e dimentiche di un sole riparatore, i piccoli ragnetti marciano in ordine come nelle processioni, schivano chiodi arrugginiti e disegnano ornamenti inconsapevoli.
I vortici creano un turbine danzante con tutto ciò che non ha peso: sacchetti, cartacce, volantini, e qualche residuo di supereroe rimasto orfano di testa, braccio, spada. L’erba alta e inneggiante custodisce i segni di un fermento recente: una scarpa logora, magliette informi, un biberon, un orsacchiotto senza naso. Sembra il mare, il cui fondale accoglie quello che noi non abbiamo amato
abbastanza.
Mi siedo sulla panchina, inarco la schiena, inspiro, e d’un tratto un pallone mi colpisce, rimbalza da me a terra e da terra a me, con un impulso del tutto autonomo. Muovo una mano e lui si muove, fermo la mano e lui si ferma, come legati da una innaturale sincronia.
– Ridammelo! – urla dall’albero un bimbo dai capelli blu.
– Cosa succede Abdel? – mimetizzata anche lei tra i rami, una bambina dalla lunga chioma verde svolazza con minuscole ali fluorescenti.
– La donna qui sotto, ha preso il nostro pallone! – tuona Abdel.
– Dove vai Aida? Lo sai che non puoi avvicinarti a lei!
La bambina mi osserva, guarda me e il pallone, sa perfettamente cosa sta succedendo.
– Aida ti prego torna qui!
– Tra poco Abdel, chiama tutti gli altri, ne abbiamo bisogno. – ordina Aida mentre l’albero dà inizio alla sua metamorfosi.
Il pallone esplode in un volo ciclonico attorno al tronco creando una via lattea argentea e le voci confabulano amplificate da quel vento, che dapprima le conteneva timidamente ed ora le modula a suo piacere: cantilenanti, vivaci, e magicamente ubique.
Sorteggio le mie reazioni scegliendo un’immobilità che è impossibile esigere dai miei occhi, arrivano fino in cima a quel tiglio rigoglioso di foglie, protettrici di un segreto che prima mi è respingente ed ora, follemente, attraente. I rami si plasmano come altalene, orchestrando gli slanci concatenati di quei piccoli trapezisti. La bambina dai capelli verdi è la prima a scendere, l’inquietudine mi indietreggia e lei mi punta addosso la luce delle sue ali.
– Come hai preso il nostro pallone? – si si come hai preso il nostro pallone? – ripete l’eco dei bambini rimasti sull’albero.
– Non l’ho preso, mi è caduto addosso!
– Dici la verità? – si si dice la verità!
– Te lo giuro… –
– Allora sei la prescelta. – sei la prescelta sei la prescelta sei la prescelta!
– Ma cosa significa, cosa vuol dire… io non…- cosa significa cosa significa cosa significa!
I bambini hanno raggiunto Aida, in cerchio intorno a me esaminano ogni movimento e simultaneo sussulto del pallone, sghignazzando ad ogni mio accenno d’incredulità.
Halima fa un passo avanti, una cascata di riccioli lilla le incornicia il volto sereno.
– Mi chiamo Halima. Sei la prescelta significa che sei stata scelta come messaggera della nostra storia.
– la nostra storia la nostra storia la nostra storia!
Il suo invito all’ascolto è garbato, e mentre gli altri si siedono incrociando le gambe, io vengo risucchiata dal campo magnetico del cerchio di testoline variopinte. Mi siedo con il pallone accanto che non ferma la sua magica missione.
– Siamo partiti dalla nostra terra una mattina di ottobre. – inizia Saleh, un esile piccolo ometto dalla zazzera arancione.
– Eravamo tutti sul camion. C’era poca luce dentro, io ero vicino a mio padre e mia sorella Farah. – una lacrima colorata riga il volto di Saleh provocando uno scroscio di nuove risate.
– Abbiamo viaggiato tantissimo, io avevo fame e dovevo fare sempre la pipì! – interviene Zahira accarezzando la sua lunga treccia gialla.
– Era buio e ci hanno fatti scendere in un bosco. – continua Hassan, grattandosi la testa azzurra.
– Mi sono graffiato tutte le braccia con le erbacce mentre camminavo. Papà mi diceva di non lasciare la sua mano e seguivamo una torcia tenuta in alto dal capofila, un omone barbuto che faceva le puzzette sul camion. – le puzzette le puzzette le puzzette!
– Siamo arrivati al mare e ci siamo seduti un po’ perché la barca non c’era. Poi è arrivata, era di gomma e aveva i cerotti neri.
– Raisha vieni qui!
Mentre subisco inerme la vibrazione di quel racconto, non mi accorgo di Raisha, uno scricciolo di bimba che si accoccola appoggiando la testa sulle mie gambe. I suoi capelli sono fili di seta rosa, vellutati e lucidissimi.
– L’uomo barbuto è entrato in acqua per avvicinare la barca. È salito prima il papà di Saleh, poi ha aiutato tutti gli altri a salire. Il mare era mosso, ma siamo riusciti a sederci tutti intorno al bordo ed hanno acceso il motore tirando una corda.
Abdel è il più grande, ha occhi nerissimi, le sue parole sono assennate, organizza nella sua mente solo quelle non pregne della paura che quel ricordo gli suscita.
Si distrae, sembra cercare qualcuno. Raid compare camminando a carponi insieme al cane della pensilina. Sulla sua testa un’esplosione di capelli arruffati, gonfi, e viola. Il cane gli afferra i polpacci, lo morde, e lui ride rigirandosi nello sterrato, alimentandone l’euforia crepuscolare.
– La barca poi si è fermata! – esclama Raid prendendo il suo posto nel cerchio.
– Si è proprio fermata, eravamo fermi in mezzo al mare ed entrava l’acqua. Mio fratello Abdel cercava di toglierla con le mani, tutti cercavamo di toglierla ma le onde la riempivano di nuovo.
Il cerchio dei bambini ha perso la compostezza iniziale, l’estraneità ha ceduto il posto alla confidenza, sovrappongono i ricordi resi consueti dall’incoscienza dei più piccoli, e insostenibili dalla consapevolezza dei più grandi.
Aida prende respiro e coraggio, la sua diffidenza appare sopita.
– Abbiamo avuto tanta paura quando stavamo andando sempre più giù, ma poi è passata quando abbiamo visto una barca grandissima vicina. – oh grandissima grandissima!
– Si però non ci ha presi! – piagnucola Raid – io volevo dargli il mio orsetto…forse non gli piaceva perché è senza naso…
– Non abbiamo capito cosa sia successo dopo – prosegue Aida – ma è successo che vicino alla barca si è acceso un arco colorato, tipo un ponte. – si si un ponte un ponte!
– Era un ponte di tutti i colori: giallo, arancione, verde, viola, blu, lilla, rosa e azzurro. E poi abbiamo sentito una voce che ci parlava.
– Io ho visto un uomo con la barba bianca e lunga! – rinviene Raisha dal suo comodo giaciglio.
– Ma no! Era scura, e aveva la pelle nera come Hassan! – sostiene Aida.
– La voce ha detto che per salvarci potevamo salire sul ponte e che ci avrebbe portati in un posto sicuro, ma che ognuno di noi si sarebbe sporcato i capelli con uno di quei colori. Io mi sono sporcata di verde.
– Ti è andata bene, a me è toccato l’arancione, sembro un fiammifero! – protesta Saleh.
– A me piace il rosa, voglio essere sempre rosa! – Raisha volteggia in una goffa giravolta mentre Halima alza un braccio e tutti schizzano in piedi.
– Ora dobbiamo andare, tra poco sarà buio. – buio buio buio!
– Questa è la nostra storia, tu ci credi, non è vero? – mi chiede Abdel senza attendere risposta.
– Portala con te, dillo a tutti che d’ora innanzi coloro che scorgeranno un arcobaleno riceveranno un segno, sapranno che noi esistiamo, che siamo stati salvati, e che saremo per sempre i bambini del ponte arcobaleno.
Abdel e il pallone si avviano verso l’albero e tutti gli altri eseguono l’ordine ricevuto. L’imbrunire avanza sulla via del mio ritorno, i cirrocumuli chiazzano il cielo maculandolo di molteplici azzurri.
– Mamma, guarda! L’arcobaleno è sulla nostra casa! – esclama un bimbo alla finestra allungando la mano.
– Hai visto com’è bello tesoro? Ma…cos’hai combinato, perché hai le mani di tutti i colori?
– Si, io ci credo!
– Ci crede! Ci crede! Ci crede!
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foto: Anna Franca Coviello
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