collettivo culturale tuttomondo Banana Yoshimoto Moonlight Shadow
Moonlight Shadow di Banana Yoshimoto (Giappone), 1987
Hitoshi andava in giro con un campanellino attaccato al portatessera, non se ne separava mai.
Era un piccolo dono che gli avevo fatto quando non eravamo ancora innamorati. Non aveva nessun significato particolare, ma lo portò con sé fino all’ultimo.
Lo conobbi in seconda liceo, anche se era di un’altra classe, perché, come me, era tra gli organizzatori della gita scolastica di quell’anno. Il programma era diverso per ogni classe, facemmo insieme solo il viaggio di andata in treno.
Sul binario, riluttanti a separarci, ci stringemmo scherzosamente la mano. Fu in quel momento che mi ricordai per caso di avere in una tasca della divisa un campanellino caduto dal collare del gatto. Glielo diedi dicendo: ‘Un regalino d’addio’. Lui rise e fece: ‘Che roba è?’, ma con grande cura lo avvolse nel fazzoletto come se si trattasse di una cosa importante. Rimasi molto sorpresa: mi sembrava un gesto piuttosto insolito per un ragazzo della sua età.
Che strano, fare una cosa del genere, pensai.
Che l’avesse fatto perché glielo avevo dato io, o solo per buona educazione, il suo gesto mi piacque molto.
Quel campanello mise in moto i nostri sentimenti. Ci rimase in mente per tutto il resto del viaggio. Ogni volta che il campanello tintinnava, lui si ricordava di me e del tempo trascorso insieme, e io passavo i giorni a pensare a lui e a quel campanellino che lo accompagnava sotto un cielo lontano. Al ritorno cominciò un grande amore.
Per quasi quattro anni il campanello fu con noi a tutte le ore, invariabilmente. Con noi divise ogni momento che passammo insieme, il primo bacio, le grosse liti, il bel tempo, la pioggia, la neve, la prima notte. Ogni volta che Hitoshi tirava fuori il portatessera, che usava anche come portafogli, udivamo quel tintinnio fievole e argentino. E un suono che ho ancora nelle orecchie, dolcissimo Se dico che me lo sentivo, può sembrare un sentimentalismo da ragazzina, una di quelle cose che si dicono sempre dopo. Ma lo dico lo stesso. Me lo sentivo.
E una cosa che mi ha sempre profondamente turbato.
A volte, benché Hitoshi fosse lì, davanti ai miei occhi, avevo la sensazione che non ci fosse. Anche quando dormivo avvertivo spesso il bisogno di accostare l’orecchio al suo cuore, non so perché. A volte il suo sorriso era così luminoso che ne ero abbagliata. Vi era in lui e nella sua espressione una specie di trasparenza. A essa attribuivo quel senso di fragilità e di inquietudine che mi trasmetteva. Sarebbe stato molto più doloroso se avessi pensato che si trattava di un presentimento.
Nei miei vent’anni di vita era la prima volta che provavo un’esperienza sconvolgente come quella di perdere la persona amata. Ne ho sofferto al punto da sentirmi annientata.
Dalla sera in cui lui è morto la mia anima si è trasferita in un’altra dimensione e non può tornare indietro in nessun modo. Mi è impossibile vedere il mondo con gli occhi di un tempo. La mia mente fluttua, senza nessuna stabilità, senza requie, in una confusa desolazione. E un po’ come se fossi passata attraverso quelle esperienze che nella vita ci si augura di evitare: l’aborto, la prostituzione, una grave malattia.
Lo so, eravamo ancora giovani, e forse il nostro amore non sarebbe durato tutta la vita. Tuttavia avevamo già affrontato insieme molte situazioni difficili. Vedevamo il nostro rapporto approfondirsi e ci misuravamo con il peso dei nostri problemi, imparando a conoscerli ad uno ad uno. Così abbiamo costruito insieme quattro anni della nostra vita.
Adesso posso gridarlo forte. Ma che razza di Dio sei? Amavo Hitoshi più della mia vita.
A due mesi dalla morte di Hitoshi, ogni mattina, appoggiata alla ringhiera del ponte sul fiume, bevevo un tè caldo. Avevo cominciato a fare jogging all’alba perché non riuscivo a dormire, e mi fermavo sempre lì a riposare prima di tornare indietro.
Dormire di notte era la cosa che temevo di più. Perché era terribile lo shock di quando avrei riaperto gli occhi. Mi svegliavo di soprassalto, e nel momento in cui capivo dove mi trovavo ero terrorizzata dalla profonda oscurità. Tutti i miei sogni avevano a che fare con Hitoshi. Nel mio sonno leggero e angoscioso trovavo e perdevo Hitoshi continuamente. Sapevo per tutto il tempo che era solo un sogno, e che nella realtà non avrei potuto incontrarlo più. Perciò facevo di tutto per non svegliarmi. Quante volte ho aspettato, agitandomi nel sonno e sudando freddo, il momento del risveglio in un’alba gelida, nello sconforto più assoluto. Oltre la tenda cominciava a schiarire, ed io venivo catapultata in un tempo pallido e immobile, così freddo e triste che rimpiangevo i sogni di poco prima. Restavo con gli occhi sbarrati nell’alba solitaria con il dolore che i sogni mi avevano lasciato. Mi svegliavo sempre a quell’ora. Conoscevo per la prima volta la stanchezza di sonni agitati e la paura di quell’ora solitaria in cui, come in un lungo delirio, avrei atteso le prime luci dell’alba.
Fu così che decisi di cominciare a correre.
Comprai due costose tute da ginnastica, scarpe da corsa, perfino una piccola borraccia di metallo in cui mettere qualche bevanda. Intraprendere qualcosa di nuovo partendo dagli oggetti è la cosa peggiore, ma bisognava guardare avanti.
Con l’inizio delle vacanze di primavera cominciai a correre. Arrivavo fino al ponte e tornavo indietro, lavavo l’asciugamano e il resto, mettevo tutto nell’ asciugatrice e aiutavo mia madre a preparare la colazione. Poi dormivo un po’. La mia vita andava avanti così. La sera incontravo gli amici, guardavo dei video, facevo di tutto pur di non restare senza niente da fare. Ma era uno sforzo vano. Di cose che avrei voluto fare veramente ce n’era solo una. Incontrare Hitoshi. Ma a tutti i costi dovevo mantenere in qualche modo in movimento le mani, il corpo, la mente. Se avessi continuato a sforzarmi, a un certo punto si sarebbe aperto uno spiraglio: almeno così mi sforzavo di credere. Non c’era nessuna garanzia, ma credevo che ce l’avrei fatta a resistere fino ad allora. Quando mi era morto il cane, quando mi era morto l’uccellino, avevo tirato avanti più o meno così. Ma in questo caso non funzionava. I giorni passavano senza spiragli, sempre più desolati. Continuavo a ripetere, come se pregassi: ‘Ce la farò, ce la farò a uscirne. E solo questione di tempo.’
Il fiume dove mi fermavo ogni giorno divide più o meno la città in due. Fino al ponte bianco che collega una riva all’altra ci vuole una ventina di minuti. Amavo quel posto.
Era lì che io e Hitoshi, che abitava dall’altra parte del fiume, ci davamo sempre appuntamento e anche dopo la sua morte vi ero rimasta legata.
Mi fermavo in un punto dove non c’era mai nessuno, e circondata dal rumore dell’acqua mi riposavo e bevevo piano il tè bollente dalla borraccia. Gli argini bianchi del fiume Si perdevano in lontananza, e il panorama della città era avvolto nella nebbia azzurrina dell’alba. Ferma così, in quell’aria cristallina e pungente, mi sembrava di stare in un luogo un po’ più vicino alla morte. Solo in quello scenario severo e limpido, di una solitudine desolata, riuscivo a sentirmi a mio agio. Non per masochismo: perché senza quel momento non avrei avuto la forza per affrontare il resto della giornata. Quel paesaggio era diventato per me assolutamente necessario.
Anche quella mattina feci brutti sogni e mi svegliai di colpo. Erano le cinque e mezzo. L’alba prometteva una giornata serena. Come sempre mi cambiai e uscii. Fuori era ancora buio e non c’era anima viva. L’aria era gelida e le strade biancastre e opache. Il cielo blu cupo cominciava a tingersi a oriente di una delicata sfumatura rossa.
Mi sforzavo di correre. A volte, quando mi sentivo mancare il fiato, mi veniva da pensare che correre così, stanca com’ero per la notte trascorsa, non fosse che un modo di maltrattarmi. Era un dubbio che respingevo subito nella mia mente confusa: mi dicevo che se non altro al ritorno avrei dormito. La tranquillità delle strade era così totale che faticavo a mantenere chiara la coscienza.
Il rumore del fiume si faceva più vicino, e il cielo cambiava a ogni istante. Una bella giornata stava per nascere attraverso il cielo azzurro e limpido.
Arrivata al ponte, come sempre mi appoggiai alla balaustra e mi misi a guardare le strade e le case che sfumavano indistinte nell’azzurro dell’aria. Il fiume scorreva con un suono fragoroso, trascinando ogni cosa con la sua schiuma biancastra. Un vento freddo mi soffiava sul viso, asciugando il sudore. Nell’aria ancora rigida di marzo splendeva chiara la mezza luna. Il respiro si condensava in vapore bianco. Mentre guardavo il fiume, versai del tè nel tappo della borraccia e stavo per berlo. In quel momento una voce risuonò improvvisa alle mie spalle.
“Che tè bevi? Me lo fai assaggiare?” Sussultai. Fui colta così di sorpresa che lasciai cadere la borraccia nel fiume. Mi rimase in mano solo il tappo, pieno di tè fumante.
Molti pensieri mi agitarono tutti insieme. Mi voltai. Davanti a me c’era una ragazza dal viso sorridente. Doveva essere più grande di me, ma non riuscivo proprio a immaginare quanti anni avesse. Provai ad azzardare un’età. Forse intorno ai venticinque… Aveva capelli corti e occhi grandi e limpidi. Portava un soprabito bianco su abiti leggeri, ma sembrava che non avvertisse il freddo. Non mi ero accorta affatto della sua presenza vicino a me.
Sorridendo allegramente, con una dolce voce nasale, disse: “E successo come in quella favola di Grimm. O era di Esopo? La favola del cane.”
“Nella favola,” dissi freddamente, “il cane vede la sua immagine riflessa nell’acqua e lascia cadere l’osso. Non è qualcun altro a farglielo cadere.”
“Vuol dire che ti ricomprerò la borraccia,’ disse lei e sorrise.
“Grazie.” Mi sforzai di sorridere anch’io.
Era così placida che non riuscii ad arrabbiarmi e finii col pensare anch’io che fosse una cosa da niente. No, non aveva n‚ l’aria di una folle e neppure quella di un’ubriaca che torni a casa all’alba. Aveva occhi troppo limpidi e intelligenti, e un’espressione di una profondità incredibile, quasi avesse assorbito tutta la tristezza e la gioia del mondo. Forse per questo l’atmosfera sembrava tendersi intorno a lei.
Mandai giù solo un sorso del tè che era rimasto e porsi il resto a lei: “Prendi, è alla pera.”
“Ah, mi piace un sacco,” disse lei, afferrando il tappo con le sue dita sottili. “Sono appena arrivata. Vengo da piuttosto lontano.” Parlava guardando il fiume con lo sguardo brillante, esaltato, tipico di chi viaggia.
“Per turismo?” chiesi, pensando fra me: Ma che ci sarà mai venuta a fare in un posto come questo dove non c’è niente?
“Sai, presto qui ci sarà uno spettacolo che si vede solo una volta ogni cento anni,” disse.
“Uno spettacolo? ”
“Sì. Se ci saranno le condizioni adatte.”
“Che tipo di spettacolo?”
“E ancora un segreto. Ma te lo dirò senz’altro. In cambio del tè,” disse, ma si mise a ridere e io non feci domande. Si sentiva nell’aria avvicinarsi il mattino. La luce si scioglieva nell’azzurro del cielo, e un bagliore impercettibile orlava di un luminoso candore gli strati dell’atmosfera.
Pensai che era ora di tornare. Dissi: “Beh, adesso devo andare.” Lei mi guardò dritto negli occhi col suo sguardo luminoso e disse: “Io mi chiamo Urara. E tu?”
“Satsuki,” risposi io.
“A presto,” disse Urara, e mi salutò agitando la mano.
Anch’io la salutai con la mano mentre mi allontanavo.
Che strana ragazza! Non avevo capito niente di quello che aveva detto, ma mi aveva dato l’impressione di una persona che non avesse una vita ordinaria come gli altri. Mentre correvo, i miei dubbi si facevano più profondi ad ogni passo. Presa da una strana inquietudine, mi voltai. Urara era ancora sul ponte. Di profilo, guardava il fiume. Rimasi stupefatta. Il suo viso sembrava completamente diverso da quello della ragazza con cui avevo parlato poco prima. Non avevo mai visto un’espressione così grave.
Quando si accorse che mi ero fermata, di nuovo mi sorrise e mi salutò con la mano. Imbarazzata, anch’io la salutai e ripresi a correre.
Ma che tipo di persona sarà mai? continuai a chiedermi per un po’. Quella mattina, mentre prendevo sonno, la mia mente era occupata da quella misteriosa ragazza chiamata Urara, circondata dai raggi abbaglianti del sole.
Hitoshi aveva un fratello minore molto eccentrico.
Sia nel suo modo di pensare sia in quello di reagire alle cose c’era un non so che di singolare. Dalla prima volta che l’avevo visto, il suo modo di vivere mi era sembrato quello di un essere che si fosse formato in una dimensione differente e fosse stato catapultato in questo mondo dove, raggiunta l’età della ragione, aveva detto a se stesso: ‘D’ora in poi vivrò qui!’ Si chiama Hiiragi, e questo mese ha fatto diciott’anni.
Hiiragi, che veniva da scuola, entrò nel caffè al terzo piano di un grande magazzino dove ci eravamo dati appuntamento, indossando una divisa alla marinara.
Per la verità mi vergognavo molto, ma lui si comportava con la massima naturalezza, e io mi finsi disinvolta. Si sedette di fronte a me, chiedendomi ancora affannato se avessi aspettato molto, e quando feci cenno di no sorrise allegramente Mentre ordinava, la cameriera lo squadrò dalla testa ai piedi e poi, con espressione sconcertata, disse: ‘Va Di viso non assomigliava molto a Hitoshi, ma spesso, se guardavo le sue dita o certi casuali movimenti della sua espressione, mi sembrava che il cuore mi si arrestasse.
In quei momenti, di proposito, mi lasciavo sfuggire un gemito soffocato.
“Cosa c’è?” Hiiragi mi guardava con la tazza in una mano.
“Gli… gli somigli,” dicevo.
Allora lui diceva sempre: ‘Imitazione di Hitoshi.’, e imitava il fratello. Poi tutti e due ridevamo. Così, scherzando, lenivamo le ferite del cuore. Era una specie di gioco.
Non c’era altro che potessimo fare.
Io avevo perso il mio ragazzo, ma lui aveva perso il fratello e la ragazza in una sola volta.
Lei si chiamava Yumiko ed era una bella ragazza della sua stessa età, piccola di statura, brava a tennis. Tra noi non c’era molta differenza di età. Andavamo d’accordo, e spesso facevamo cose insieme. Quante volte, andando da Hitoshi avevo trovato lì anche Hiiragi e Yumiko, e avevamo passato la notte a giocare tutti e quattro…
Quella notte Hitoshi, che stava uscendo, doveva dare uno strappo a Yumiko, che era andata a trovare Hiiragi, fino alla metropolitana. A metà strada ci fu l’incidente. Lui non aveva nessuna colpa.
Ciò nonostante, morirono tutt’e due sul colpo in quel modo.
“Stai facendo jogging?” chiese Hiiragi.
“Sì,” risposi.
“In effetti, eri un po’ ingrassata.”
“Sì, durante il giorno non mi muovo abbastanza”.
Mi venne da ridere. Ero così dimagrita che chi mi vedeva se ne accorgeva all’istante.
“In questi casi lo sport serve a ben poco. Senti, ho un’idea. Hanno aperto da poco un ristorante dove fanno un kakiagedon fantastico. Ha anche molte calorie. Andiamoci! Adesso, subito,” disse lui.
Hitoshi e Hiiragi erano completamente diversi anche di carattere, ma avevano entrambi una gentilezza naturale e disinteressata che veniva da una buona educazione. La gentilezza che mi aveva colpito in Hitoshi quando aveva avvolto il campanellino nel fazzoletto con tanta cura.
“Buona idea,” dissi io.
La divisa alla marinara che Hiiragi indossava era un ricordo di Yumiko.
Lei la metteva sempre per andare a scuola, benché al suo liceo non si usassero uniformi. A Yumiko la divisa piaceva. I genitori di entrambi lo avevano implorato piangendo di togliersi quella gonna. A Yumiko, dissero, non avrebbe fatto piacere. Ma Hiiragi si era messo a ridere senza prestar loro ascolto. Una volta gli chiesi se la indossasse per ragioni sentimentali. ‘No, non è per quello, disse, i morti non tornano, e un oggetto è soltanto un oggetto. Però mi fa sentire meglio.’ “Hiiragi, fino a quando hai intenzione di metterti quella divisa?” gli chiesi.
“Non so,” rispose incupendosi un po’.
“Ma la gente non ti dice niente? A scuola non chiacchierano su di te?”
“No, sai,” disse lui, “c’è una comprensione incredibile, in particolare le ragazze sono molto carine con me. Forse anche perché io, portando la gonna, ho l’impressione di capirle meglio. ”
“Beh’, se è così mi fa piacere,” dissi sorridendo. Dall’altra parte del vetro si vedeva il traffico vivace e allegro dei clienti del grande magazzino che facevano spese. I grandi magazzini di sera, con gli abiti primaverili gaiamente illuminati, sono sempre un’immagine di felicità.
In quel momento capii. La sua divisa alla marinara era come il mio jogging. Aveva esattamente la stessa funzione.
L’unica differenza era che io, non essendo eccentrica come lui, mi accontentavo del jogging. Ma il jogging non aveva abbastanza impatto per dare energia a uno come lui. Per questo aveva scelto, come variante, la divisa alla marinara.
Erano entrambi espedienti per ridare un po’ di vita a spiri ti che languivano. Servivano a distrarre, ad ammazzare il tempo.
Sia io che Hiiragi in quei due mesi avevamo acquistato un espressione che nessuno dei due aveva prima. L’espressione di chi combatte con se stesso per non pensare alle persone perdute. Un’espressione che inconsapevolmente assumi quando brancoli nell’oscurità e a ogni ricordo la solitudine ti assale.
“Se resto fuori per cena, bisogna che telefoni a casa. E tu? Non fa niente se non ceni a casa?” chiesi a Hiiragi alzandomi.
‘Ah, già. Oggi mio padre è fuori per lavoro,” disse lui.
Allora tua madre è sola. Forse è meglio se torni.”
‘No, sai cosa? Le faccio mandare un kakiagedon a casa. presto, non avrà ancora preparato. Pagherò pure, così le faro una sorpresa.”
“Mi sembra un’idea carina,” dissi.
“Fa sentire già meglio, no?” sorrise lui tutto felice. In momenti così, questo ragazzo che di solito sembrava un adulto, aveva l’espressione di uno della sua età.
Una volta – era inverno – Hitoshi disse: “Ho un fratello, più piccolo. Si chiama Hiiragi.” Era la prima volta che lo sentivo parlare di questo fratello. Stavamo scendendo la lunga scalinata di pietra sul retro della scuola, sotto un cielo plumbeo, e sembrava che da un momento all’altro dovesse mettersi a nevicare. Hitoshi aveva le mani in tasca e mentre parlava, il suo fiato si condensava in fumo bianco.
“In un certo senso lui è più adulto di me,” disse: ” Ah sì?” risi io.
“E un tipo che è sempre padrone della situazione. Eppure, quando accade qualcosa che riguarda la famiglia, diventa un bambino. É un fatto curioso. Per esempio, ieri mio padre si è tagliato la mano con un vetro, una cosa da niente, e lui è rimasto sconvolto, così sconvolto che sembrava fosse arrivata la fine del mondo. E stata una cosa inaspettata, per questo mi è tornata in mente.”
“Quanti anni ha?”
“Fammi pensare… quindici, credo.”
“Ti assomiglia? Vorrei conoscerlo.”
“Ma sai, lui è veramente un tipo strano. Non sembriamo nemmeno fratelli. Magari se lo incontri non ti piacerò più nemmeno io. E proprio un tipo strano, disse Hitoshi con un sorriso molto da fratello maggiore.
“Quando il nostro amore sarà così collaudato da non vacillare più nemmeno davanti a un fratello strano, me lo farai conoscere?”
“Scherzavo, scherzavo. Non c’è problema. Anzi, penso che andrete d’accordo. Anche tu hai i tuoi lati strani, e lui è sensibile alle persone buone.”
“Alle persone buone?”
Hitoshi sorrise senza guardarmi. In momenti come questo era sempre un po’ imbarazzato.
La scalinata era molto ripida, e scendevamo frettolosamente. Il cielo invernale che cominciava a scurirsi si specchiava nei vetri dell’edificio bianco della scuola. Mi ricordo le mie scarpe nere, i calzettoni, l’orlo della gonna dell’uniforme mentre scendevo quei gradini uno alla volta.
Fuori era scesa la sera, piena del profumo della primavera.
Ora che la divisa alla marinara di Hiiragi era nascosta dal cappotto, mi sentivo più sollevata. Le luci delle vetrine rischiaravano i marciapiedi e riverberavano la loro luce bianca sul flusso ininterrotto dei visi dei passanti. Il vento aveva un dolce profumo e c’era la primavera nell’aria, ma faceva ancora freddo, e presi i guanti dalla tasca.
Il ristorante è vicino a casa mia, perciò c’è un po’ da camminare,” disse Hiiragi.
“Dobbiamo attraversare il ponte, no?” dissi, e rimasi per un po in silenzio. Mi era tornata in mente la ragazza di nome Urara che avevo incontrato proprio sul ponte. Stavo pensando vagamente che ero tornata lì ogni mattina senza più rivederla, quando improvvisamente Hiiragi disse: Ah, naturalmente al ritorno ti accompagno.” Forse aveva attribuito il mio silenzio alla preoccupazione di andare così lontano.
“Ma figurati, è ancora presto,” mi affrettai a rispondere. Pensai Gli… gli somiglia,’ questa volta senza dirglielo.
Adesso gli somigliava tanto che non c’era bisogno che ne facesse l’ imitazione. Quell’insieme di distacco e quella generosità che, pur senza annullare la distanza, manifestava una gentilezza istintiva verso gli altri, mi dava un’impressione di trasparenza che avevo già provato. Era un’emozione profonda e limpida che avvertii di nuovo in modo vivido Con una nostalgia struggente.
“No, mi era solo venuto in mente che l’altra mattina, quando correvo, sul ponte c’era una strana persona,” dissi, mentre ci incamminavamo.
Una strana persona… un uomo?” sorrise lui. “Fare Jogging la mattina presto è pericoloso.”
“No, no, niente del genere. Una ragazza. Sai, un tipo che non si scorda facilmente.”
“Beh, spero che la vedrai ancora.”
“Chissà. ” Non so perché ma avevo una voglia terribile di rivederla. Quell’espressione… Quando l’avevo vista mi era sembrato che il cuore mi si fermasse. Sorrideva dolcemente, ma rimasta sola aveva assunto un’espressione di gravità ultraterrena, come un demone nascosto in spoglie umane. Era impossibile dimenticarla. Avevo la sensazione che nemmeno il mio dolore, la mia tristezza, arrivassero a tanto. Mi faceva sentire che forse per me non era ancora finita.
Arrivati al grande incrocio, sia io che Hiiragi avvertimmo un senso di turbamento. Lì era avvenuto l’incidente di Hitoshi e Yumiko.
Anche adesso, le macchine passavano sfrecciando. Hiiragi ed io ci fermammo al semaforo rosso ad aspettare.
“Non ci saranno i fantasmi del luogo?” disse Hiiragi ridendo, ma i suoi occhi non ridevano affatto.
“Ero sicura che l’avresti detto,” dissi, sforzandomi di sorridere anch’io.
Le luci delle macchine si incrociavano. Un fiume illuminato di automobili affrontò l’incrocio. Il semaforo galleggiava luminoso nel buio. Qui era morto Hitoshi. Una sensazione solenne si insinuò in me. Nel luogo dov’è morto qualcuno che si amava il tempo si ferma per l’eternità. Ognuno prega: ‘Se restando fermo qui dov’è accaduto, potessi conoscere la sua sofferenza…’ Quando mi capitava, visitando castelli o luoghi storici, di sentir dire: ‘Molto tempo fa, il tal dei tali camminò qui. Possiamo ancora sentirne la presenza,’ pensavo sempre: ‘Che sciocchezze!’ Ma adesso mi sembrava di capire.
Quell’incrocio, quei colori notturni in cui vedevo galleggiare edifici e negozi, erano stati l’ultimo paesaggio di Hitoshi. E non si trattava nemmeno di un passato così lontano.
Avrà avuto paura? Avrà pensato a me, anche se solo per un attimo? Anche allora la luna sarà stata così alta nel cielo come adesso?
“E verde.” Ero così assorta a guardare la luna che Hiiragi dovette spingermi per farmi attraversare. La sua piccola luce, fredda e bianca, simile a una perla, era bellissima.
“E davvero squisito.” dissi.
Il kakiagedon che stavamo mangiando, seduti al banco di quel piccolo ristorante nuovo, che aveva ancora l’odore del legno fresco, era così buono da far quasi ricordare cos’era l’appetito.
“Visto?” disse Hiiragi.
“Squisito. Viene quasi da pensare che valga la pena di vivere, ” dissi.
Il cuoco, dall’altra parte del banco, a sentire tante lodi era tutto confuso.
“Ero sicuro! Ci avrei giurato che ti sarebbe piaciuto.
Tu te ne intendi. Non sai che piacere mi fa vederti contenta,” disse Hiiragi d’un fiato, sorridendo. Poi si alzò per ordinare la cena a casa per la madre.
Io sono troppo ostinata e non posso fare altro che continuare a vivere così, ancora impigliata nelle tenebre, pensai davanti al piatto di kakiagedon, ma come vorrei che questo ragazzo potesse tornare il più presto possibile a sorridere come adesso, anche senza bisogno di indossare la divisa alla marinara.
Verso mezzogiorno suonò il telefono Mi ero presa un raffreddore, così non ero andata a fare jogging e me ne stavo a letto a sonnecchiare. Nella mia testa intontita dalla febbre il telefono squillò molte volte prima che mi alzassi, muovendomi come in una nebbia. Sembrava che in casa non ci fosse nessuno, così fui costretta ad arrivare in corridoio, e sollevai il ricevitore.
“Sì?”
“Pronto, potrei parlare con Satsuki?”
Quella voce non mi diceva niente.
“Sì, sono io,” dissi sorpresa.
“Ciao, sono io,” disse la voce dall’altra parte del filo.
” Urara. ” Sussultai. Quella ragazza riusciva sempre a sorprendermi. Non mi sarei mai aspettata che mi chiamasse.
“Scusami di averti telefonato all’improvviso, ma… hai da fare adesso? Non è che potresti uscire?”
“Va bene ma… come hai fatto a sapere il mio numero?” chiesi turbata. Doveva chiamare dalla strada perché si udivano rumori di macchine. Mi accorsi che rideva.
“Basta che pensi, di qualcosa, ‘Voglio assolutamente saperlo’, che subito mi accorgo di saperlo,” disse Urara come se pronunciasse una formula magica. Lo disse con tanta naturalezza da farmi pensare: Perché no, dopo tutto?
“Allora, ci vediamo al quarto piano dei grandi magazzini davanti alla stazione, al reparto delle borracce,” disse lei e riattaccò.
Stavo così male che in circostanze normali avrei evitato di uscire e sarei rimasta a letto.
Dopo aver riagganciato pensai: Accidenti! Non mi reggevo sulle gambe e sentivo salire la febbre. Ma la curiosità di rivederla era così forte che cominciai a prepararmi. Lo feci senza esitare, come se la luce dell’istinto, scintillando nel profondo dell’anima, mi avesse ordinato di andare.
Ripensando a quell’episodio mi accorgo che il destino era una scala e che in quel momento non potevo saltare nemmeno un gradino. Mancare qualche scena sarebbe stato molto più facile ma non mi avrebbe permesso di salire fino in cima. Forse a farmi muovere era una piccola luce dentro l’anima che moriva. Un luccichio nel buio senza il quale, pensai, sarei riuscita a dormire meglio.
Mi coprii bene e montai sulla bicicletta. Il giorno era avvolto in una tiepida luce. Si avvertiva la vicinanza della primavera. Un vento che si era appena levato mi soffiava gentile sul viso. Sugli alberi ai lati delle strade cominciavano ad apparire, qui e là, le prime foglie verdi. L’azzurro pallido del cielo, dietro un velo sottile di foschia, si perdeva oltre la città, in lontananza.
C’era una tale freschezza tutt’intorno che non potei fare a meno di sentire quanto dentro di me tutto fosse arido e spento.
Quella scena primaverile non riusciva assolutamente a penetrare in me. Si rifletteva solo sulla superficie, come in una bolla di sapone. La gente che camminava, i capelli che brillavano alla luce, emanava felicità. Ogni cosa respirava sotto i dolci raggi del sole, e aumentava di splendore a ogni istante. La scena era bellissima, traboccante di vita, ma la mia anima pensava con nostalgia alle strade desolate d’inverno e a quel fiume all’alba. Se potessi rompermi in mille pezzi, scomparire… pensai.
Urara mi aspettava al reparto delle borracce. Con un pullover rosa, in piedi in mezzo alla gente, dimostrava più o meno la mia età.
“Salve!” la salutai.
Appena mi avvicinai mi guardò stupita e disse: ‘Sei raffreddata? Mi dispiace, se l’avessi saputo non ti avrei fatta uscire.”
“Si vede dalla faccia?” chiesi ridendo.
“Sì, sei molto rossa. Allora, scegli presto. Prendi quella che ti piace di più,” disse lei, girandosi verso le borracce.
“Che dici, forse è meglio un thermos? Oppure ne preferisci una leggera, più comoda per correre? Guarda, questa è uguale a quella che ti ho fatto cadere l’altra volta. Se invece ti interessa il design, possiamo andare a vedere al reparto di articoli cinesi.” Fui commossa dal suo calore e mi accorsi che stavo veramente arrossendo.
“Quella bianca,” dissi io, indicando una piccola borraccia termica dalla superficie scintillante.
“La signorina ha buon gusto,” disse Urara, e me la regalò.
Mentre prendevamo un tè in un piccolo caffè vicino al terrazzo e a un certo punto Urara cominciò a tirar fuori dei pacchettini dalla tasca del cappotto. Disse: “Ti ho portato anche questi.” Continuava a tirarli fuori uno dopo l’altro. Io la guardavo a bocca aperta.
“Me li ha dati uno che ha un negozio di tè. Ci sono diversi tè di erbe, tè inglesi… c’è anche un tè cinese. Ci sono i nomi scritti sui pacchetti. Puoi usarli per la tua borraccia.
“Spero che ti piacciano.”
“Grazie. Io veramente…” dissi.
“Figurati, è il minimo, dopo averti fatto cadere nel fiume la borraccia,” sorrise Urara.
Era un pomeriggio limpido e sereno. La luce illuminava le strade in modo così vivido da dare quasi pena al cuore.
Ombra e luce si alternavano riflettendo i lenti spostamenti delle nuvole. Era un pomeriggio di pace. Il clima era così mite che quasi mi pareva di non avere alcun problema al mondo, a parte il naso otturato e il non sentire il sapore di quello che bevevo.
“A proposito,” dissi. “Dimmi la verità: come hai fatto ad avere il mio numero di telefono?”
“No, è vero, sai?” disse lei sorridendo. “Per molto tempo ho vissuto da sola, spostandomi da un luogo all’altro, e si è sviluppata in me una sensibilità da animale selvatico.
Non mi ricordo nemmeno quand’è cominciato. Basta che io alzi il telefono e pensi: Vediamo, qual è il numero di Satsuki? perché le mie dita formino il numero naturalmente. Nella maggior parte dei casi è giusto.”
“Nella maggior parte dei casi?” dissi io ridendo.
” Sì, nella maggior parte dei casi. Se mi capita di sbagliare, chiedo scusa e riattacco. Poi mi vergogno,” disse Urara, ridendo contenta.
Invece di pensare che dopo tutto ci sono tanti modi per sapere il numero di telefono di qualcuno, preferii credere alla sua tranquilla spiegazione. Era l’effetto che lei faceva.
Mi sembrava, da qualche parte dentro di me, di conoscerla da moltissimo tempo, e nel rivederla provavo tanta gioia e tanta nostalgia che avrei pianto.
“Grazi‚ per oggi. Sono stata felice come un’innamorata, dissi.
“Allora ti darò dei consigli come si fa tra innamorati. Prima di tutto, cerca di guarire dal raffreddore per dopodomani.”
“Perché? Ah, e per quello spettacolo di cui mi parlavi? E’ dopodomani?”
“Sì. Va bene? Guarda che non devi dirlo a nessuno,” disse abbassando un po’ la voce. “Dopodomani fatti trovare al posto dell’altra volta almeno tre minuti prima delle cinque di mattina, e se tutto va bene forse riuscirai a vedere qualcosa. ”
“Che significa ‘qualcosa’? Che tipo di cosa? E anche possibile che non sia visibile?” Non riuscii a trattenere un’ondata di domande.
“Sì. Dipende dalle condizioni atmosferiche, e anche dalle tue condizioni personali. E una cosa molto delicata, e io non posso garantire niente. Però, è solo una mia impressione, ma credo che tra te e quel fiume ci sia un rapporto profondo. Perciò, forse riuscirai a vedere. Dopodomani, all’ora che ti ho detto, se ci sarà il concorso di varie circostanze che Si producono circa una volta ogni cento anni, forse in quel posto si potrà vedere una specie di miraggio. Scusa se non faccio altro che dire ‘forse’.” Non capivo di cosa parlasse e la guardai perplessa. Però per la prima volta dopo tanto tempo provavo un senso di eccitazione.
“Ma è qualcosa di bello?”
“Hmm, di prezioso, direi. Ma dipende da te,” disse.
Dipende da me! Proprio ora che sono ridotta così, che riesco appena a respirare.
“Okay, credo che verrò,” dissi sorridendo.
Il rapporto fra me e il fiume. Ma certo! Ebbi una sorta di shock. Il fiume era la linea di confine che mi separava da Hitoshi. Se pensavo a quel ponte, subito mi sembrava di vedere Hitoshi che mi aspettava. Io arrivavo sempre in ritardo, lui era sempre lì. Anche quando tornavamo a casa, era lì che ci separavamo: lui andava dall’altra parte del fiume, io da questa. Anche l’ultima volta era stato così.
“Adesso andrai a casa di Takahashi?” Fu l’ultima conversazione tra Hitoshi e me. In quel periodo felice il mio viso era più fresco e in carne.
” Sì, anche se prima passerò da casa. E molto tempo che non li vedo.”
“Salutameli, eh! Sarete tutti ragazzi, immagino che discorsi osceni,” dissi.
Lui fece ridendo: “Certo. Non dovremmo?” Avevamo passato tutto il giorno a divertirci e adesso, un po’ brilli, camminavamo ridendo e scherzando. Nella gelida sera d’inverno lo splendido cielo stellato colorava le strade, ed io mi sentivo di un umore radioso. Il vento pungeva le guance, le stelle palpitavano. Le nostre mani, unite dentro una tasca, mi trasmettevano una sensazione di calore e di dolcezza.
“Però, su di te non direi mai niente di brutto,” disse Hitoshi, come se ci avesse pensato solo in quel momento.
Lo trovai buffo e soffocai una risata, nascondendo la faccia nella sciarpa. Volersi ancora così bene dopo quattro anni è una cosa abbastanza straordinaria, pensai. In confronto a ora, è come se allora fossi stata di dieci anni più giovane. Il rumore del fiume si faceva più vicino, la separazione imminente mi rendeva malinconica.
E poi il ponte. Il ponte che è diventato il luogo dove ci siamo separati per sempre. L’acqua scorreva con un rumore fragoroso, e dal fiume saliva un vento gelido che ci sferzava il viso. Circondati dal fragore dell’acqua e dal cielo stellato, ci scambiammo un rapido bacio, e ci separammo sorridendo, col pensiero delle felici vacanze invernali che avevamo trascorso insieme. Il suono del campanello si allontanava tintinnando nella sera.
Tra noi due c’era molta tenerezza. C’erano state anche grosse liti, e piccoli tradimenti.
Avevamo sofferto nel cercare l’equilibrio tra desiderio e amore. Essendo tutti e due giovani ci eravamo feriti a vicenda molte volte. Quella felicità non era esistita spontaneamente da sempre. C’era voluto del tempo. Ma erano stati belli, quei quattro anni. E poi c’era stato quel giorno, così perfetto da aver paura che finisse. Di quella limpida giornata d’inverno in cui tutto era stato così bello, così dolce, mi restava soprattutto l’immagine di Hitoshi che si allontanava, il suo giubbotto nero che si confondeva con l’oscurità.
Era una scena che facevo riandare indietro infinite volte piangendo. Non riuscivo a pensarci senza piangere. E continuavo a fare sempre lo stesso sogno in cui attraversavo il ponte, lo rincorrevo gridando ‘Non andare!’ e lo facevo tornare indietro. Nel sogno Hitoshi diceva: ‘E stato perché mi hai fermato che sono ancora vivo,’ e sorrideva.
Ormai, se Hitoshi mi tornava in mente per caso durante il giorno, riuscivo a non piangere, ma questo mi dava una strana sensazione di vuoto.
Avevo l’impressione che lui, così infinitamente lontano, si allontanasse un po’ alla volta sempre di più.
Mi separai da Urara divisa a metà tra il sospetto che l’appuntamento sul fiume fosse uno scherzo, e la speranza.
Urara, col suo sorriso dolce, scomparve per le strade.
Anche se lei fosse stata una bugiarda mitomane e io, correndo trepidante quella mattina verso il fiume, avessi fatto la figura della stupida, non me ne sarebbe importato.
Lei aveva fatto intravedere un arcobaleno al mio spirito.
L’attesa eccitata di qualcosa di sconosciuto vi era penetrata come un soffio di vento. Anche se non fosse accaduto niente, anche se fossimo rimaste l’una accanto all’altra a guardare l’acqua gelida del fiume luccicare alla luce del mattino, sarebbe stato piacevole, dopotutto. Mi sarebbe bastato.
Così pensavo, camminando con la mia borraccia. Andavo a riprendere la bicicletta, quando, davanti alla stazione, vidi Hiiragi.
Cosa ci fa a quest’ora per strada e senza la divisa? Avrà marinato la scuola, pensai divertita.
Avrei potuto rincorrerlo e chiamarlo, ma a causa della febbre tutto mi riusciva faticoso, perciò, mi limitai ad avanzare nella sua direzione senza accelerare il passo. In quel momento lui cominciò a camminare proprio nella stessa direzione, così mi trovai automaticamente a seguirlo. Camminava svelto, così io che non volevo correre, faticavo a stargli dietro.
Osservai Hiiragi. Vestito normalmente, era un ragazzo da far girare la testa. Nel suo pullover nero, aveva un portamento elegante. Era alto, slanciato e c’era nei suoi movimenti agilità e finezza. Non mi sorprende che le sue compagne siano commosse dal fatto che indossa la divisa di Yumiko in ricordo di lei, pensavo guardandolo camminare davanti a me. Perdere tutto d’un colpo la ragazza e il fratello non è una cosa da niente. É il trionfo dell’assurdo. Anch’io forse, se fossi una studentessa di liceo, vorrei a tutti i costi ridargli la gioia di vivere, e finirei con l’innamorarmene. A quell’età, non c’è niente che piaccia di più a una ragazza.
Ero sicura che se l’avessi chiamato si sarebbe voltato sorridendo. Ma qualcosa mi diceva che non era il caso di chiamarlo. Se ne stava andando in giro da solo e io sentivo che in lui non c’era nessuno spazio per gli altri. Dovevo essere terribilmente stanca. Niente riusciva a penetrarmi direttamente nel cuore. Come avrei voluto raggiungere, il più presto possibile, il momento in cui i ricordi sarebbero stati solo ricordi! Ma per quanto potessi correre, la distanza era enorme, e se pensavo a quello che mi aspettava, la solitudine mi dava i brividi.
In quel momento Hiiragi si fermò all’improvviso e anch’io mi fermai. Pare proprio che lo stia pedinando, pensai ridendo fra me, e accelerai il passo con l’intenzione di chiamarlo, ma quando vidi che cosa si era fermato a guardare mi fermai di nuovo, sorpresa.
Era la vetrina di un negozio di articoli da tennis.
Conoscevo bene quel modo apparentemente casuale di guardare quell’espressione indifferente. Ma era proprio quella casualità a trasmettere la profondità della sua azione. E come un imprinting, pensai. L’atteggiamento dell’anatroccolo che segue il primo oggetto che ha visto muoversi, convinto che sia la madre. Anche se per lui è una cosa normalissima, per chi lo guarda è toccante.
Terribilmente toccante.
Nella luce di primavera, confuso tra la folla, guardava fisso la vetrina come se essa lo assorbisse completamente.
Forse, nel guardare gli oggetti in vetrina, riviveva cari ricordi. Anch’io, solo stando con Hiiragi, riuscivo a ritrovare qualcosa di Hitoshi e a calmarmi. Era una cosa molto triste.
Avevo visto anch’io Yumiko giocare a tennis. Quando la conobbi la prima volta la trovai senz’altro carina, ma anche piuttosto comune, una ragazza gioviale e tranquilla come tante. Non riuscivo a capire cosa avesse attratto un tipo originale come Hiiragi. Ma lui era completamente preso da lei. Esteriormente era lo stesso di sempre, ma si avvertiva che c’era qualcosa in lei che lo dominava. Doveva avere una dote speciale. Chiesi a Hitoshi quale fosse.
“Dice che è il tennis,” rispose lui sorridendo ” Il tennis? ”
“Il tennis. A sentire Hiiragi, pare che sia fantastica.” Era d’estate. Nel campo da tennis del liceo io, Hitoshi e Hiiragi assistevamo a una finale di Yumiko sotto un sole cocente. Le ombre erano dense, avevamo sete. Tutto era immerso in una luce abbagliante.
Non c’è dubbio, era fantastica. Era un’altra persona.
Una persona completamente diversa dalla ragazza che mi seguiva chiamandomi ‘Satsuki, Satsuki’ con m¡lle risatine.
Stupefatta, guardavo la partita. Anche Hitoshi sembrava meravigliato. “Allora, non è fantastica?” disse Hiiragi, con aria di trionfo.
Giocava un tennis superlativo per energia e concentrazione, e la forza dei suoi colpi era incredibile. Anche le sue battute erano infallibili. Nel viso aveva un’espressione determinata. L’espressione di chi è capace di. uccidere. Ma la cosa impressionante fu che, dopo la palla della vittoria, quando si girò verso Hiiragi, il suo viso era già ritornato quello infantile e sorridente della ragazza di sempre.
Stare insieme tutti e quattro mi piaceva moltissimo. Yumiko diceva spesso: ‘Satsuki, dobbiamo stare sempre tutti insieme! Voi due non dovete lasciarvi mai!’ Io la prendevo in giro: ‘E voi? Possiamo stare tranquilli?’ e lei scoppiava a ridere dicendo: ‘Ci puoi giurare!’ E poi è finita così. Non posso crederci.
Non credo che lui la ricordi come io ricordo Hitoshi. I ragazzi non fanno apposta a farsi del male come noi. Ma con tutto il suo corpo, i suoi occhi, diceva una cosa soltanto. Non che lo dicesse a parole. Assolutamente no. Però, se l’avesse fatto le sue sarebbero state parole disperate. Terribilmente disperate. Sarebbero state: ‘Voglio che torni’.
Ma più che parole, sarebbe stata una preghiera. Era straziante. Davo anch’io quella impressione all’alba, vicino al fiume? Era per questo che Urara mi aveva parlato? Anch’io… anch’io volevo vedere Hitoshi. Anch’io pensavo: Voglio che torni. Almeno per poterci dire addio.
Decisi di rimandare a un’occasione più allegra il nostro incontro e di nascondergli che l’avevo visto. Tornai a casa senza avergli parlato.
La febbre era salita di molto. C’era da aspettarselo ad andare così in giro quando stavo già male.
Mia madre rise dicendo: ‘Non sarà la febbre che viene ai bambini quando mettono i denti?’ Risi debolmente. Ma in un certo senso era vero. Forse era il veleno dei pensieri che non serve a niente pensare, a entrare in circolo in tutto il corpo.
E anche quella notte, come sempre, mi svegliai sognando Hitoshi. Nel sogno, correvo fino al fiume nonostante la febbre, e Hitoshi era fermo lì e mi diceva sorridendo: ‘Ma dove vai così raffreddata?’ Fu uno dei sogni più atroci.
Aprii gli occhi, era l’alba, l’ora in cui di solito mi alzavo e mi vestivo per correre. Faceva freddo, un freddo tremendo, e anche se il resto del corpo scottava, mani e piedi erano gelati. Avevo brividi di freddo e dolori da tutte le parti.
Aprivo gli occhi tremando nella semioscurità, ed ebbi la sensazione di stare lottando con qualcosa di immenso e mostruoso. Per la prima volta nella mia vita pensai che forse sarei stata sconfitta.
Aver perso Hitoshi mi faceva male. Mi faceva troppo male.
Quando eravamo abbracciati, conoscevo parole che non erano parole. Mi sembrava straordinario stare così vicino a qualcuno che non erano i genitori, qualcuno diverso da me, un altro. Nel perdere le sue mani, il suo petto, sentivo di aver toccato quello che nessun uomo vorrebbe mai conoscere, la disperazione più atroce che un uomo possa mai incontrare. Ero triste, di una tristezza atroce. Ecco, ho toccato il fondo, pensai. Se riesco a superare questo momento, se arriva il mattino, sicuramente succederà qualcosa di bello, qualcosa che mi farà fare una grossa risata. Se solo nascesse la luce. Se arrivasse il mattino.
Ogni volta che mi sentivo così stringevo i denti, ma questa volta che non avevo la forza di raggiungere il fiume, non potevo far altro che soffrire. Il tempo passava lento e desolato. Arrivai a pensare che se adesso fossi andata al fiume, Hitoshi sarebbe stato veramente lì, come nel sogno.
Forse stavo impazzendo. Forse stavo finendo male.
Mi alzai con lentezza e andai in cucina per farmi un tè.
Avevo la gola terribilmente secca. A causa della febbre la casa mi appariva distorta in modo surreale. Tutti dormivano ancora e la cucina era fredda e buia. Barcollando preparai un tè bollente e tornai nella mia stanza.
Dopo il tè mi sentii molto meglio. Mi aveva ammorbidito la gola e riuscivo a respirare meglio. Seduta sul letto, aprii la tenda della finestra lì a fianco.
Dalla mia camera potevo vedere bene il cancello e il giardino. L’aria era azzurrina e un fruscio si levava dalle piante e dai fiori che tremavano al vento, sparsi nel giardino con i loro colori smorti come su un fondale di scena.
Era bello. Solo da poco avevo scoperto che nell’azzurro dell’alba tutte le cose apparivano così, come purificate.
Continuavo a guardare fuori e a un tratto mi accorsi che una figura veniva verso la nostra casa.
Sbattei le palpebre più volte pensando: Sto sognando?
Era Urara. Aveva un vestito azzurro e avanzando mi guardava sorridendo. Arrivata al cancello formulò con le labbra la domanda: ‘Posso entrare?’ Feci sì con la testa. Attraversò il giardino e venne sotto la mia finestra. Aprii il vetro col cuore che mi batteva forte.
“Brr, che freddo!” disse lei. Un vento gelido entrò da fuori e mi gelò le guance, calde per la febbre. L’aria trasparente aveva un sapore delizioso.
“Come mai qui?” le chiesi. Credo di aver riso, felice come una bambina.
“Torno dalla mia passeggiata del mattino. Stai ancora male per il raffreddore, eh? Ti do una caramella con vitamina C.” Tirò fuori dalla tasca una caramella e me la porse con un sorriso limpido.
“Grazie, come sempre,” dissi con voce roca.
“Mi sa che hai la febbre alta. Fa sentire male, eh?” disse.
“E poi stamattina non riesco nemmeno a correre,” dissi. Non so perché, mi veniva da piangere.
“Il raffreddore, sai,” disse Urara con voce calma, abbassando lievemente le palpebre, “adesso è nella fase peggiore. Stai così male che preferiresti morire. Però forse a questo punto non può peggiorare. Ogni persona ha limiti che non possono essere oltrepassati. E vero, in futuro il raffreddore ti potrebbe tornare, in una forma forte e altrettanto grave, ma se tieni duro forse non accadrà più per tutta la vita. E così che funziona. Puoi considerare inaccettabile la possibilità che torni oppure, se torna, dire a te stessa: ‘Beh, ci risiamo di nuovo?’ e tutto diventa molto più facile.” Mi guardò sorridendo.
La guardavo con gli occhi spalancati. Aveva parlato veramente del raffreddore? O che altro voleva dire? L’azzurro dell’alba e la febbre rendevano tutto un po’ sfocato, e io non riuscivo più a distinguere il confine tra sogno e realtà.
Mentre quelle parole si imprimevano nel mio cuore, guardavo trasognata i capelli sulla fronte di Urara che parlava, muoversi dolcemente al vento.
“Allora, a domani,” sorrise lei, e chiuse piano la finestra dall’esterno. Poi con passo agile, come danzando, uscì dal cancello.
Seguii con lo sguardo la sua figura che si allontanava, come se fluttuasse in un sogno. Ero felice sino alle lacrime che fosse venuta a porre fine a quella notte atroce. Avrei voluto dirle quanto ero felice che fosse venuta a trovarmi, avvolta in quella foschia azzurrina come un’apparizione…
Avevo perfino la sensazione che al momento di riaprire gli occhi tutto sarebbe andato un po’ meglio. Mi addormentai.
Quando mi svegliai, mi accorsi che se non altro il raffreddore era un po’ migliorato. Che bella dormita! pensai.
Era già sera. Mi alzai, feci la doccia, mi cambiai e accesi il fon. La febbre era scesa e, a parte il corpo un po’ debole, stavo molto meglio.
Ma sarà veramente venuta, Urara? pensavo, la testa sotto il vento caldo che mi asciugava i capelli. Sembrava proprio un sogno. E le cose che aveva detto riguardavano veramente il raffreddore? Le sue parole risuonavano in me come parole sognate.
Vidi sul mio viso riflesso allo specchio un’ombra profonda, ed ebbi il presentimento che quelle notti terribili si sarebbero ripetute ancora. Ero così stanca che non volevo nemmeno pensarci. Ero esausta. E tuttavia avrei voluto fuggire, a costo di trascinarmi carponi.
Respiravo un po’ meglio del giorno prima. Il pensiero che sicuramente sarebbero venute altre notti di solitudine in cui non sarei riuscita a respirare bene, provocava in me ribellione e rifiuto. Pensare a come la vita si ripeta mi faceva rabbrividire. E tuttavia, la certezza meravigliosa che esisteva un momento in cui all’improvviso era di nuovo possibile respirare, mi faceva battere forte il cuore.
Questo pensiero mi fece venire da ridere. L’improvviso abbassarsi della febbre mi faceva fare dei ragionamenti da ubriaca. Sentii bussare alla porta. ‘Avanti,’ dissi, pensando che fosse mia madre. La porta si aprì e con mio grande stupore entrò Hiiragi.
“Tua madre continuava a chiamarti ma tu non sentivi,” disse lui.
“Avevo l’asciugacapelli acceso,” dissi. Ero un po’ imbarazzata per essermi fatta trovare così in disordine, ma Hiiragi, senza minimamente scomporsi, disse sorridendo: “Sono venuto a trovarti perché per telefono tua madre ha detto che avevi un raffreddore terribile e stavi malissimo. ” Mi ricordai che era stato a casa mia molte volte con Hitoshi, andando al matsuri, o al ritorno da una partita di baseball. Come aveva fatto le altre volte, mise un cuscino per terra e vi sedette sopra. Ero io che me ne ero dimenticata.
“Ti ho portato un regalino,” disse Hiiragi, e mi mostrò sorridendo una grande busta di Kentucky Fried Chicken.
Era così gentile che mi mancò il coraggio di dire che ero guarita, anzi mi sentii in dovere di simulare qualche colpo di tosse. “Ti ho portato il sandwich che ti piace tanto, il gelato e anche la Coca-cola. C’è anche la mia parte, naturalmente. Mangiamo?” Pensai che aveva verso di me l’atteggiamento che si tiene verso una cosa fragile, da maneggiare con cura. Ne fui dispiaciuta. Forse mia madre aveva esagerato. Ma non mi sentivo nemmeno così in forma da poter dire: ‘Sto benissimo, di che vi preoccupate?’ Eravamo seduti sul pavimento nella stanza illuminata.
Ci investiva il vapore caldo della stufa. Mangiammo tutto con calma. Mi accorsi che avevo una terribile fame, e mangiai con gusto. Mangiavo sempre con piacere quando ero insieme a lui. E questo mi sembra una cosa molto bella.
” Satsuki. ”
“Sì?” Mi ero distratta e quando Hiiragi mi chiamò alzai il viso sorpresa.
“Non va bene restare da sola, dimagrire in quel modo, tormentarti fino a farti venire la febbre. Se ti vengono dei momenti così, chiamami. Facciamo qualcosa insieme. Fare finta di niente davanti agli altri, anche se ogni volta che ti vedo sei sempre più sciupata, è un inutile spreco di energia. Tu e Hitoshi eravate molto uniti, perciò adesso per te è terribile. E naturale.”
Disse tutto questo d’un fiato. Ero molto sorpresa. Per la prima volta mostrava verso di me quella partecipazione accorata, quasi infantile. Di solito il suo atteggiamento era molto più cool. Anche per questo le sue parole mi toccarono.
Adesso capivo cosa voleva dire Hitoshi quando raccontava sorridendo che suo fratello diventava bambino solo per le cose che riguardavano la famiglia.
“Lo so, io sono ancora giovane e immaturo tanto che mi viene da piangere se non metto la divisa alla marinara, ma nei momenti difficili siamo tutti fratelli, no? E io ti voglio così bene che potrei dormire con te in un solo futon!” Lo disse con un viso così sincero e in modo tanto innocente che era impossibile fraintendere il significato di quelle parole. Sorrisi, e con tutto il cuore gli dissi: “Sì, farò come dici tu. Te lo giuro. Grazie. Grazie, Hiiragi.”
Quando Hiiragi se ne andò, tornai a dormire. Forse grazie alle medicine per il raffreddore, dopo tanto tempo ebbi un sonno tranquillo, profondo, senza sogni. Era un sonno che aveva la purezza e l’eccitazione di quello dei bambini la notte della vigilia di Natale. Al mio risveglio sarei andata al fiume, dove Urara mi aspettava, per vedere quel ‘qualcosa’.
Poco prima dell’alba.
Non ero ancora nelle mie condizioni normali, ma mi cambiai e corsi fuori.
Era un’alba ghiacciata. La luna sembrava attaccata al cielo. Il rumore dei miei passi mentre correvo risuonava nell’aria azzurra e silenziosa, poi scompariva inghiottito dall’immobilità delle strade.
Urara era ferma sul ponte. Quando arrivai restò com’era, con le mani in tasca e il viso seminascosto dalla sciarpa.
“Buongiorno,” disse sorridendo, e i suoi occhi scintillavano.
Una o due stelle brillavano pallide, come se stessero per spegnersi, nel cielo di porcellana azzurra.
Era una scena di una bellezza che dava i brividi. Il rumore del fiume era fragoroso e l’aria tersa.
“É così azzurro che anche il corpo sembra sciogliersi nell’azzurro,” disse Urara, indicando il cielo.
Le silhouette degli alberi che oscillavano al vento con un fruscio erano appena distinguibili. Il cielo si spostava lento.
La luce della luna penetrava attraverso la semioscurità.
“É ora,” la voce di Urara si fece tesa. “Sei pronta? Tra poco ci saranno oscillazioni e alterazioni della nostra dimensione, dello spazio e del tempo. Può darsi che io e te, anche se siamo vicine, non riusciamo a vederci; che ognuna di noi veda una cosa completamente diversa. Lì, dall’altra parte del fiume. Non devi n‚ parlare, n‚ attraversare il ponte. Intesi?”
“Okay.”
Poi restammo in silenzio. Si sentiva solo il fragore dell’acqua. Ferma accanto a Urara, fissavo le rocce dall’altra parte del fiume. Il cuore mi batteva forte e le gambe mi tremavano. A poco a poco l’alba si avvicinava. L’azzurro del cielo si fece più liquido e si sentivano i gridi degli uccelli.
Ebbi l’impressione di udire, fioco, lontanissimo, un suono. Sorpresa mi voltai, ma Urara non c’era più. Solo il fiume, io e il cielo. Poi, mescolato al rumore del vento e del fiume, sentii un suono familiare e struggente.
Un campanello. Non c’era dubbio, era il campanello di Hitoshi.
Era il suo campanello che tintinnava fievole in quel grande spazio vuoto. Chiusi gli occhi e assaporai quel suono nel vento. Poi, quando riaprii gli occhi e guardai dall’altra parte del fiume, pensai di essere diventata pazza, più di quanto non fossi stata in quei due mesi. Riuscii a stento a trattenere un urlo.
Hitoshi era là.
Se non era sogno o follia, la persona che stava ferma, dall’altra parte del fiume, e guardava verso di me, era Hitoshi. Solo il fiume ci separava. Fui travolta dalla nostalgia.
Tutte le immagini, l’essenza dei ricordi che avevo dentro di me si raccoglievano nella sua figura.
Nella foschia azzurrina dell’alba, Hitoshi guardava verso di me. Mi guardava preoccupato, come sempre quando facevo qualcosa di irragionevole. Con le mani in tasca, mi guardava fisso. Tutto il tempo che avevo passato stretta nelle sue braccia mi sembrava vicino e lontano. Continuavamo a fissarci. C’era solo la luna, sempre più pallida, a vedere la corrente troppo impetuosa e la distanza troppo grande che ci separavano. I miei capelli e la camicia di Hitoshi, a me così familiare, fluttuavano lentamente al vento, come in un sogno.
“Hitoshi, vorresti parlare con me? Io lo vorrei tanto… Starti accanto, abbracciarti, gioire insieme di esserci incontrati ancora una volta. Però, ormai – gli occhi mi si riempirono di lacrime – il destino ci ha separato così chiaramente, tu dall’altra parte del fiume, io di qua, e non posso fare niente. Posso solo guardarti piangendo tutte le mie lacrime.’ Anche Hitoshi continuava a guardarmi con tristezza.
Ah, se il tempo potesse fermarsi, pensai. Ma con l’apparire delle prime luci dell’alba, tutto cominciò lentamente a sbiadire. Vedevo Hitoshi allontanarsi piano piano. Venni presa dall’ansia. Hitoshi sorrise e mi salutò agitando la mano. Mi salutò agitando la mano molte, molte volte. Cominciava a confondersi sempre di più in quella oscurità azzurra. Anch’io agitai la mano. Il mio Hitoshi… avrei voluto imprimermi negli occhi per sempre le sue spalle, le sue braccia, le forme del suo corpo che amavo. Pregai di ricordare tutto di quel momento, anche il paesaggio sfocato e il calore delle lacrime che mi scorrevano sul viso. La linea disegnata dalle sue braccia indugiò nel cielo per un istante.
Ma lui era sempre più indistinguibile. Attraverso le lacrime lo vidi scomparire.
Quando non vidi più niente, tutto tornò come prima; il fiume scorreva sul greto ed era mattina. Accanto a me c’era Urara. Senza voltarsi, con uno sguardo di una tristezza lacerante, chiese: “Hai visto?”
“Ho visto,” risposi asciugandomi le lacrime.
“Ti ha sconvolto?” chiese Urara, e si volse verso di me sorridendo.
“Mi ha sconvolto,” risposi con un sorriso, e sentii dentro di me la tensione allentarsi. Restammo lì ancora per un po’, colpite dai raggi di sole del mattino che nasceva.
Bevendo un caffè caldo nel primo Mister Donut aperto al mattino, Urara, con gli occhi un po’ assonnati, disse: “Anch’io sono venuta da queste parti perché speravo di poter dire addio al mio ragazzo che la morte ha portato via in un modo strano.”
“Sei riuscita a vederlo?” chiesi.
“Sì,” disse Urara, con un sorriso. “Può accadere una volta ogni cento anni, se le circostanze aiutano. Nè il luogo nè il tempo sono stabiliti. Quelli che lo conoscono lo chiamano il ‘fenomeno Tanabata. Accade soltanto presso i grandi fiumi. Alcune persone non riescono a veder niente.
Quando c’è corrispondenza tra i pensieri che chi è morto ha lasciato dietro di sè e il dolore di chi lo ha perduto, si forma quell’apparizione ed è possibile vederla. Anch’io l’ho vista per la prima volta. Penso che tu sia stata molto fortunata.”
“… ogni cento anni!” La mia mente corse a quel grado di probabilità così incredibilmente basso.
“Quando sono arrivata qui e ho fatto un sopralluogo, tu eri là. Ho capito subito, con un fiuto da animale selvatico, che anche a te era morto qualcuno. Per questo ti ho invitata,” disse Urara sorridendo. I suoi capelli luccicavano al sole. Aveva la calma e la compostezza di una statua.
Che tipo di persona era veramente? Da dove veniva dove sarebbe andata? E chi aveva visto poco prima dall’altra parte del fiume? Non riuscii a chiederglielo.
“La separazione e la morte sono atroci. Però un amore che non sembri l’ultimo della vita, per una donna non è che un inutile passatempo,” disse Urara mentre mangiava una pasta, come se stesse parlando del più e del meno. “Penso che essere riuscite a dirgli addio oggi sia stato un bene.” I suoi occhi si fecero molto tristi.
“… sì, credo anch’io,” dissi. Urara, immersa nella luce del sole, mi guardò con dolcezza.
Hitoshi che agitava la mano. Era una visione dolorosa, come un raggio di luce che trafiggeva il cuore. Per me era troppo presto per capire se fosse stato un bene o no. Colpita da una luce troppo forte, avvertivo solo il dolore. Un dolore acuto da togliere il respiro.
Eppure… eppure in quel momento, mentre guardavo Urara che sorrideva, nel leggero profumo del caffè, ebbi la netta sensazione di essere straordinariamente vicina a ‘qualcosa’. Il vetro della finestra vibrava forte al vento. Come Hitoshi al momento dell’addio, per quanto potessi aprire il cuore, per quanto potessi sforzare gli occhi per vedere, quel qualcosa sarebbe passato e fuggito via. Brillava forte come il sole nelle tenebre, mentre io gli passavo vicino a una velocità incredibile. C’era un’atmosfera sacra, come risuonante di inni. Pregai: ‘Voglio diventare più forte.’ “E adesso? Andrai da qualche altra parte?” chiesi, mentre uscivamo dal caffè.
Urara annuì, poi sorridendo mi prese la mano. “Un giorno o l’altro ci rivedremo. Non dimenticherò il tuo numero di telefono.” Poi se ne andò, mescolandosi alle onde di persone che riempivano le strade del mattino. Mentre la guardavo allontanarsi, pensai: Anch’io non ti dimenticherò. Non dimenticherò quello che mi hai dato.
“Sai, l’altro giorno l’ho vista,” disse Hiiragi, sedendosi accanto a me. Ero andata alla mia vecchia scuola nell’intervallo di mezzogiorno per dare a Hiiragi, in ritardo, il suo regalo di compleanno. Quando lo vidi venire verso di me, che lo aspettavo seduta su una panchina del campo sportivo, guardando gli studenti che correvano, fui sorpresa perché non portava la divisa alla marinara.
“Chi hai visto?” chiesi.
“Yumiko,” rispose.
Trasalii. Un gruppo di ragazzi in tuta da ginnastica bianca passò davanti a noi sollevando della polvere.
“E stato l’altro ieri mattina, credo,” continuò lui. “Forse è stato un sogno. Stavo dormendo quando a un tratto si e aperta la porta ed è entrata Yumiko. E entrata in modo così normale che mi sono dimenticato che era morta e le ho detto ‘Yumiko?’ Allora lei si è messa un dito sulle labbra e ha fatto ‘Shh…’ sorridendo. Molto da sogno, non ti pare?
Poi ha aperto il mio armadio, ha tirato fuori con cura la divisa alla marinara e se ne è andata portandola via. Ha mosso le labbra dicendo ‘Bye-bye,’ e mi ha salutato agitando la mano. Non sapevo proprio che fare e mi sono riaddormentato. Ma sì, forse sarà stato un sogno… però la divisa è scomparsa. L’ho cercata dappertutto. Ci ho anche pianto.”
“Hmmm” feci io. Forse, se era stato quel giorno, quella mattina, anche se non sul fiume, era accaduto davvero. Ma Urara non c’era più ed era impossibile saperlo. Per riuscire a mantenersi così calmo, è proprio un ragazzo straordinario, pensai. Forse è riuscito ad attirare a s‚ il fenomeno che non accade che sul fiume.
“Che dici, sono un po’ toccato?” scherzò Hiiragi Nel debole sole del pomeriggio di primavera, dalla scuola giungeva, trasportato dal vento, il brusio dell’intervallo. Gli diedi il suo regalo di compleanno – un disco – e dissi ridendo: “In questi casi non c’è niente di meglio del jogging.” Anche Hiiragi rise. Rise e rise in quella luce.
Vorrei essere felice. Più della fatica di continuare a scavare nel fondo del fiume, mi attira il pugno di sabbia dorata che ho trovato. Vorrei che tutte le persone che amo fossero più felici di quanto non siano.
Hitoshi.
Non posso più restare qui. Momento per momento vado avanti. É il flusso del tempo che non si può fermare, non posso farci niente. Io vado.
Una carovana si ferma e un’altra riparte. Ci sono persone che potrò incontrare ancora, altre che non rivedrò più.
Persone che passano senza che io me ne accorga, persone che incrocio appena. Man mano che li saluto, ho la sensazione di diventare più pura. Devo vivere guardando il fiume che scorre.
Prego con tutto il cuore che solo l’immagine della ragazza che ero resti per sempre al tuo fianco.
Grazie di avermi salutato agitando la mano. Grazie di avermi salutato agitando la mano molte, molte volte.
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immagine dal web
Moonlight Shadow è il primo romanzo breve della scrittrice giapponese Banana Yoshimoto, scritto come tesi di laurea nel 1987.
Il racconto è incluso nelle edizioni del romanzo Kitchen, in realtà composto da tre romanzi brevi, Kitchen, Plenilunio e appunto Moonlight Shadow.
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