collettivo culturale tuttomondo Alessandro Celani (Italia, 1973 -2021)
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Fatti feroce poesia
quando i tempi sono feroci
Impara dalle bestie nei campi
come uccidono e sono uccise
Impara dal tempo che viene in soccorso
a chi è già morto fra le acque
Non cedere alle lusinghe dei poeti
dicci la verità sulla morte
chi uccise e chi fu ucciso
nome per nome
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Alessandro Celani
da Apocalisse e altre visioni, Aguaplano, 2021
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illustrazione: Konstantin Korobov, Agnello, 2022
Alessandro Celani (1973 – 2021), dottore di ricerca in Storia antica e borsista alla Scuola Archeologica Italiana di Atene, è stato archeologo, poeta e fotografo apprezzato in Italia e all’estero.
Studioso eclettico e saggista brillante e prolifico ha pubblicato numerosi volumi con la casa editrice perugina Aguaplano.
E’ autore di una monografia sul reimpiego dell’arte greca in Roma (dal titolo “Opere d’arte greche nella Roma di Augusto“ pubblicato nel 1998) e di un monumentale volume sulla scultura ellenistica, “Una certa inquietudine naturale“, del 2013. Ha pubblicato due raccolte di poesie (“Una lingua in esilio“ del 2014 e “Apocalisse e altre visioni“ del 2021), un pamphlet (“Victima. Discorso e forma dell’uccidere“ del 2016), ma anche libri di racconti brevi e fotografie (Aura, 2017; Passages, 2019) insieme ad articoli e contributi su quotidiani e riviste.
Alcune sue fotografie sono state esposte nella mostra La forza delle rovine, a Roma, al Palazzo Altemps, dall’ottobre al gennaio 2016.
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La poesia di Alessandro Celani usa le lingue del mondo in versi sciolti, mescola il verbo della scienza anatomica a quello dell’industria e del canto d’amore.
L’impasto linguistico che ne risulta è il distillato di un desiderio onnivoro, decisivo e profondissimo: il poeta vuole abitare un’unica realtà, che abbracci ogni elemento vivo e morto, conosciuto e sconosciuto. Però la lingua è anch’essa provvisoria, fatta per essere dimenticata, anche quando si tratta di poesia, cioè – come confessa Celani – di una forma altissima ed estrema di resistenza al dolore. Così suggeriscono i versi «Metti in un sacco cento parole / dimenticalo / Ecco il tuo dono». Il dono è la dimenticanza di sé e del proprio tesoro, il dono è oltrepassarsi e, ancora più intimamente, non provare alcuna commozione per il proprio passato, per la persona che siamo stati.
La poesia di Celani è infatti asciutta, breve, a volte brusca, come il gesto di chi asciughi di nascosto una lacrima e intanto sorrida, col sorriso un po’ storto che hanno quelli che sanno il mistero del provvisorio e sono quasi liberati, ormai, dalla zavorra del futuro. Il poeta qui canta la coscienza di qualcosa che definisce «cisterna delle voci», espressione echeggiante e corale di un’umanità che prende forma nel tu amoroso e, soprattutto, nelle instancabili dediche ai figli, corpi amati e futuri, corpi attoniti ancora e quasi ancora insensibili e ignari, come la coccinella abbarbicata «al vetro alluminoso del vagone».
Perché Celani arriva a insinuarsi nel pensiero animale, ad assumere lo sguardo radicale delle piccole bestie o dei monti vastissimi che digradano a valle e allora la sua voce si solleva fino a diventare siderale, l’occhio che guarda vede il mondo e se stesso da un’altezza straordinariamente rarefatta, pur chiamato nel gorgo del tempo dall’odore carnale del grano, dall’«odore anfibio delle mucose», dai baci umani e anche da «tettonici litigi», perché niente è escluso, niente viene radiato o estromesso dalla poesia. Non serve edulcorare, se la poesia è nello sguardo.
Ma la distanza è grande, le parole cadono distillate da una distanza grande come la notte e l’incertezza, per raggiungere quello che si ama.
Le parole sono fatte per desiderare e quelle di Alessandro Celani desiderano raggiungere soprattutto chi non le comprende, perché l’amore è più grande delle parole e l’invocazione più umana e vera è che le parole, anziché letteratura, siano suoni di bestie. Versi animali, più che versi poetici, versi di un corpo che ora è la sua essenza, la sua limpida, mera, nera, opaca essenza biologica e chiede solo di essere visto: «Vieni qui facciamoci vedere». Basta con le metafore. Che adesso sia la vita a chiamare la vita. Proprio da qui, dai versi di un libro chiamato Apocalisse, da queste pagine tanto riservate quanto spudorate.
E che il corpo venga lasciato al morso delle formiche, che il corpo si dissemini nell’esistente, che sia bosco e sia mare e sia dimenticanza, perché «la vicinanza è una forma d’immortalità» e «gli amati non muoiono». Celani sembra dunque concludere il suo canto, doloroso e concreto e luminoso come una scaglia di cemento toccata dalla luce di una stella, con la scoperta – stupefatta e meravigliosa – che chi è amato non vive nei ricordi, vive nel corpo stesso di chi lo ama. (by Maria Grazia Calandrone)