cctm collettivo culturale tuttomondo Andrea aka Clockwork
Beatriz Quispe di Andrea aka Clockwork (Italia)
“…signorina? Mi sente?”
Beatriz torna coi piedi per terra, cosa, chi?
Davanti a lei una scrivania caotica e piena di fogli scarabocchiati, uno schermo, un pannello di vetro.
Un anziano incamiciato e sudato, col sangue agli occhi e un foglio che agita senza pace.
“Le sto dicendo”, ripete l’anziano stizzito, “Se ha la decenza di ascoltarmi, che il mio ordine di batterie è in ritardo. La mia sede dovrà chiudere se non abbiamo nulla da vendere.”Che peccato, pensa Beatriz ruotando gli occhi, non dice una parola e strappa il foglio dalle mani del vecchio. Una tempesta di numeri in rosso copre la pagine ma non è un problema suo, timbro speciale qui, qui e qui, anche questa è fatta, questa va ad Arica, copia per lei e arrivederci.
Le lamentele isteriche dell’anziano non raggiungono più le sue orecchie, protette dalla musica delle cuffiette. Il flauto andino copre ogni cosa.
“…e si tolga quegli affari!”, è l’unica cosa che Beatriz sente quando porge di nuovo l’orecchio all’uomo che ancora sbraita e suda. “Deve portarla lei ad Arica. Qui le poste non vanno più! Quando ero giovane io, il Perù era un paese per bene. Cretini!”, sbatte sulla scrivania la copia del documento ed esce.
Beatriz porta una mano alla fronte, non di nuovo, ti prego.
Telefonata veloce, nessuna risposta.
Ancora.
E ancora.
Un altro sciopero?
Aspetta una, due, tre ore. Nessun cliente, nessuno si fa vivo al Magazzino Codelco Sur, chi mai dovrebbe? Tanto vale andare ora alla maledetta Arica, magari torna prima di sera.
Si lega i capelli, mette cuffie e flauto nella borsa, spegne il PC ed esce, verso la stazione.
Passano solo treni merci dalla stazione di Tacna, binario morto per i passeggeri, solo feretri di ruggine sfrecciano sotto il sole.
“De nuevo?”, chiede Manu, l’operaio ferroviario che scarica un vagone di scatoloni non identificati.
“De nuevo”, annuisce Beatriz salendo sul convoglio.
Manu opera il muletto avanti e indietro per più di un’ora, solo quando il vagone è vuoto si sfila i guanti, asciugandosi il sudore sulla fronte.
“Partiamo fra poco”, dice sedendosi sul pavimento caldo, di fianco a Beatriz. Lei sente a malapena ma annuisce, le note Quechua del suo flauto la separano da tutto, Manu sospira.
Il treno parte.
Arica, città polverosa e scalcinata, ancora di più la stazione in cui Beatriz scende, goffamente nascosta da oleandri e palme, accompagnate dalle note di una chitarra pigra di là dal piazzale. Il Cile non se la sta passando bene, se questo è uno dei suoi porti più grandi sul Pacifico.
La richiesta firmata e timbrata si agita tra le dita di Beatriz, freme nel vento secco e senza meta: deve trovare la fabbrica di batterie, o qualche corriere della Codelco.
“Amigo”, la giovane fa cenno al tassista in siesta sul viale della stazione, è lui che strimpella all’ombra delle fronde. “Churina. Ci vai?”
“Poconchile”, risponde quello senza fissarla.
Beatriz ci pensa un attimo, fissa la chitarra, poi lui.
“Va bene”, gli mette in mano tutti i pesos che ha in tasca, tanto paga Codelco.
Il tassista lancia la chitarra nella macchina un tempo bianca, ora la ruggine e la sabbia le hanno dato il colore dei muri e della terra, mette in moto, fa salire Beatriz e sterza via dalla stazione.
“Tutto asciutto”, dice il tassista tra i tornanti, indicando le anse di quello che una volta era il fiume Lluta, ora un semplice solco nella sabbia. Ai suoi lati varie case diroccate, deserte come la terra intorno a loro.
Il tassista arriva a destinazione, “Poconchile”, annuncia accendendosi una sigaretta, Beatriz scende dall’auto.
“Non c’è più nulla”, dice lei guardandosi intorno.
“Tu hai chiesto de venir qui, amiga.”
La ragazza controlla la mappa sul telefono, poi fa un cenno per salutare e si inerpica su un sentiero ripido, verso le Ande.
Sono vari chilometri sotto il sole basso, il tramonto si avvicina ma il minuscolo paese di Churina, sempre che esista ancora, sembra
eternamente lontano. Arriva al crepuscolo, gli ultimi raggi illuminano il cartello scardinato, Bienvenidos!, sembra quasi sarcastico. Il villaggio di papà.
Poco distante dalla strada principale, prima che le piccole case bianche e i pochi campi secchi si mostrino davvero, tre uomini Quechua armeggiano sul terreno, uno ha una trivella.
Scuotono la testa delusi, Beatriz intuisce qualche parola nel loro dialetto, il poco che il padre le ha insegnato: “È finito.”
“Buonasera”, la ragazza si intromette, “Cerco la raffineria Codelco di Churina, devo consegnare questo e ritirare… roba”, sventola il foglio timbrato.
Gli uomini la guardano perplessi, quasi come se li stesse prendendo in giro.
“Amiga”, risponde con spagnolo incerto quello di loro ancora accovacciato, i palmi a terra, “Sono loro che hanno svuotato tutto. I campi, le case. Il rio.”
Un nodo in gola, Beatriz si blocca.
Lo sapeva, l’ha sempre saputo.
Dietro quella scrivania, dietro quello schermo e quelle scartoffie, i titani minerari stanno divorando tutto. E ora è toccato al villaggio di papà.
Butta lo zaino per terra, accartoccia il documento, altra piccola sentenza di morte in una valle in cui la vita ha già perso. Si siede di fianco all’uomo e tira fuori il flauto, le prime note fluiscono appena lo porta alla bocca.
“Quando la voce finisce
Lontane son le Ande
Ancora un passo verso ovest
Il Deserto Florido attende”
I Quechua si guardano mentre Beatriz suona, capiscono le sue parole ma non il loro motivo.
Quello con la trivella ha gli occhi lucidi, si copre la fronte con una mano, poi prende l’altro per mano, fa cento passi verso valle, verso ovest.
“Proviamo qui.”
I tre trivellano, il sole li abbandona ma le note no, giro dopo giro, la sabbia non molla ma neanche loro, e tantomeno Beatriz.
Quando il fiato finisce, quando anche le labbra sono asciutte e senza speranza, nel buio della notte stellata, sboccia l’acqua.
E ballano, i Quechua e Beatriz, ballano sulla sabbia bagnata e sulla carta straccia; Codelco non li avrà, e Churina vivrà un altro giorno.
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foto: Andrea aka Clockwork
“Sono Andrea aka Clockwork, un dottorando in fisica teorica con la passione per la scrittura.
Ho sempre amato la narrativa, l’archeologia e la scienza, ma è stato solo a metà del mio percorso di Laurea Magistrale in Fisica Teorica a Torino che ho capito che avevo bisogno di scrivere. Trascorrere anni di quarantena in una stanza solitaria durante il mio dottorato a Varsavia è stata la spinta finale, e così è nato un tentativo non solo di raccontare storie ma anche di comunicare l’urgenza di un rinnovato tipo di narrativa. Uno che sia politico e tragga ispirazione dai conflitti e dalle questioni odierne e possa allo stesso tempo immaginare non solo un mondo migliore e più equo, ma anche un percorso realistico per realizzarlo. Questo è ciò che mi ispira e mi spinge a scrivere.”
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cctm collettivo culturale tuttomondo Andrea aka Clockwork