centro cultural tina modotti Antonietta Cianci (Italia)
di Antonietta Cianci (Italia)
Io sono un’erba rampicante
sul muro cocente
sullo strapiombo,
resisto.
Il gelsomino bianco
che inerpicandosi profuma l’aria
E tu che ad ogni costo cogli
il fiore che non profuma le dita
Tu che segui l’amore che non ti bagna
stai fermo
inerte
fradicio di me fino al respiro.
da Radici, Transeuropa Edizioni, 2019
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foto: Antonietta Cianci
Antonietta Cianci è nata nel 1980 a Napoli.
Dopo essersi laureata in Lettere Classiche ed aver conseguito l’abilitazione all’insegnamento, si è trasferita a Bergamo, dove attualmente vive e lavora come docente. Radici è la sua prima raccolta poetica.
Il canzoniere di Antonietta Cianci è un gioco di magia e, contemporaneamente, di esorcismo: un gioco intessuto di movimenti seri, e di lampi ironici, come capita spesso ai giochi dei poeti.
Da una parte c’è la realtà, dall’altra la forza della parola che tenta di trovare l’ordine nelle cose, di scoprire nella realtà diabolicamente proteiforme “l’ordine invisibile /la linea retta/ la curva /che diventa cerchio/ e trasmuta in sacro”.
E anche nell’ultima poesia della raccolta l’autrice si presenta come parte di quel caos, come protagonista di un viaggio ora esterno, ora interiore “alla ricerca della forma/ della retta che tranquillizzi/ del cerchio che mi contenga”: lei sa che la sua Itaca, la spiaggia sicura su cui “fermarmi /e stare” potrà trovarla “nella profondità” del suo “disordine”.
La poetessa sa anche che chi scrive poesie ha già superato le insidie del Ciclope, di Calipso, delle Sirene, ha già trovato l’approdo.
E dunque ci avverte: questo canzoniere è la memoria di viaggi già conclusi, ed è il libro di bordo di un viaggio nuovo, intrapreso “in questa crisi della quarantina/ passando per luoghi che non mi fermano / e tempi / che sfuggono e non combaciano/ non so se sia alba o tramonto /il vivere dolorante”. La certezza di ieri – “non è tanto diversa un’alba / da un tramonto” – è già corrosa dal dubbio: il più solido approdo è oggi sabbia insidiosa, e non è un caso che proprio questi dubbi “aprano” la raccolta.
La realtà ostile, che vorrebbe essere misteriosa e sfuggente, si incarna in un “lui” che è bersaglio immobile dell’amara ironia della poetessa: “E tu mezzo morto / sotto il peso della notte insonne/ a passi faticosi e inquieti/ cerchi l’errore /l’abbaglio / il come e il quando/ hai perduto / i tuoi giorni migliori/ il come e il quando/ hai perduto/ me e la mia parte migliore.”. L’impietosa condanna suggerisce una splendida sequenza di immagini: io sono “un’erba rampicante”, “un gelsomino bianco / che inerpicandosi / profuma l’aria”, e invece tu “che segui l’amore che non ti bagna/ stai fermo/inerte / fradicio di me/ fino al respiro.”.
Antonietta Cianci sa “costringere” le parole a rappresentare con immediatezza tutta la sua potenza visionaria.
Il “lui” che ella cerca dovrebbe essere capace di fermare “il mio andare senza sosta / senza meta”, dovrebbe portarla a quella pace, che sale dalle “viscere” di Napoli e parla “di silenzi/ con la lingua del rumore”. La poetessa sa di essere Napoli e Vesuvio, di vivere e “sentire” il tormento fascinoso delle contraddizioni che cercano il momento e il luogo dell’armonia.
Napoli è silenzio fragoroso, Napoli tace come “una madre solitamente chiassosa”, Napoli è un mare di ombre ferite da “un filo di luce lunare”. E poi il Vesuvio: “io vengo dal vulcano/ dalla terra dura e dal suolo riarso/ dalla ferocia del magma che mai riposa / Vengo dal mare / sconfinato e scuro / che è silenzio rumore”: la poetessa si svela, e la sua è l’epifania di una dea pompeiana.
Antonietta Cianci “sente” la sacralità del potere della parola: la parola sacra usa il suo misterioso linguaggio, di cui la poetessa conosce tutti i segni.
E la magica sapienza le consente di scrivere questi versi: “seduta sui balconi della mia infanzia/ io mi ricordo /chi sono. / Alba e tramonto insieme.”. “Qui ad un passo dal mare /ogni cosa/ mutando forma/ si bagna di luce/ si tinge di possibile”. A prima lettura, pare che i versi abbiano il ritmo della riflessione ad alta voce, un susseguirsi di impeti e di pause improvvise e lunghe. Ma poi rileggi, e senti che sotto la durezza dell’ “andamento” prosastico c’è la delicatezza delle luci della memoria, e che anche l’ironia si placa nella dolcezza severa della “pietas”.
Il viaggio è iniziato nello splendore più intenso.
prof. Carmine Cimmino