cctm collettivo culturale tuttomondo Alessandro Milan (Italia)
Come hai fatto, papà? di Alessandro Milan (Sesto San Giovanni, 1970)
Incapacità, inadeguatezza, fatica. Se penso al mio essere padre, queste sono le prime parole che mi vengono in mente. Spesso, quando mi guardo allo specchio o mentre mi giro e rigiro nel letto in cerca di un sonno che non arriva, sussurro quattro parole: «Non ce la faccio».
È una sorta di confessione, la mia, e magari colpirà molte persone che, pur non conoscendomi, hanno seguito le vicende che hanno caratterizzato gli ultimi anni della mia vita.
Nel dicembre 2016, in una fredda domenica, mi sono ritrovato vedovo, con due figli di dieci e otto anni da crescere. Dopo averci riflettuto a lungo, ho deciso allora di buttare fuori il veleno che avevo in corpo raccontando questo inciampo in due libri, nei quali ho dipanato i miei grovigli interiori e ho urlato con forza che esiste sempre un percorso di rinascita.
Ci credo tuttora, alcuni giorni ancora più di prima, per cui non rinnego nulla della scelta di avere imboccato quel sentiero. Solo che la strada non è sempre piatta e sgombra, a volte si fa sconnessa: una via di montagna può attraversare ruscelli o sassaie, ai lati ci possono essere dolci declivi o dirupi.
Nessuno ad esempio mi aveva preparato a quello strano sconquasso emotivo che risponde al nome di adolescenza. Chi ha figli di quell’età mi ha già capito al volo, non c’è bisogno di aggiungere una parola. Il fatto è che la mia, di adolescenza, è stata priva di scossoni. Se mi guardo indietro, credo di non aver provocato una sola scocciatura ai miei genitori dai dodici ai diciotto anni, se escludiamo qualche ripetizione perché incespicavo in latino. Sono stato astemio fino a dopo l’università, non ho mai fumato una sigaretta o una canna, non ho mai bigiato a scuola, non mi interessava uscire fino a tardi o andare alle feste, ero una frana con le ragazze, Insomma, uno sfigato totale, ma vuoi mettere il lusso se lo vedi con gli occhi di mamma e papà?
Il guaio, insomma, è che avevo calcolato il mio sforzo da genitore sulla base della mia esperienza. Per cui, mi dicevo: Ce la farai, che ci vuole in fondo?
Invece no. Non ce la faccio. Non avevo il manuale per far fronte alle rispostacce, agli sbalzi d’umore, al disordine imperante, agli sconquassi ormonall, alle provocazioni, alle urla. Così mi ritrovo spesso a sbraitare: «Non fare questo», «Tira su le calze da terra», «Non rispondere cosi», «Fai i compiti», «Smettila con il computer».
Avete presente il criceto nella ruota? Eccomi.
E senza nemmeno la possibilità che hanno due genitori, di fare uno il «poliziotto buono» e l’altro il «poliziotto cattivo». Le spalle su cui caricare lo zaino sono solo due.
Non ce la faccio. Nelle grandi e nelle piccole cose.
«Papà, mi aiuti in geometria?»
«Volentieri.»
Dunque: la somma di un angolo al centro e di un angolo alla circonferenza che insistono sullo stesso arco misura 114° e 48′ e… Niente, cinque anni di liceo scientifico buttati via.
«Aspetta Mattia, vai piano. Prima devo ripassare la teoria perché non ricordo niente.»
«Papà, che palle!»
«Papo, devo fare una pecora in Das per il presepe.»
Oddio, no, io e la manualità. È più facile che impari il sanscrito nel giro di una settimana. Ci ho provato, eh, mi è venuto fuori una specie di muflone obeso e stortignaccolo. Con grande scorno e delusione di mia figlia. Per fortuna conosco Michele, abile capo scout, che in quattro e quattr’otto ha tirato fuori una pecorella da rivaleggiare con gli artisti napoletani di San Gregorio Armeno.
«Che palle, papa, sei proprio inutile.,»
Non ce la faccio.
Anche se la mia psicologa dice il contrario, che sono in gamba, che non mi devo biasimare, che ho mille risorse, che il segreto è solo dare il massimo, che bisogna pensare all’oggi. Hic et nunc, almeno le ripetizioni in latino sono servite a qualcosa.
Eppure sento spesso albergare dentro di me un continuo senso di frustrazione, mi sento Achille che insegue la tartaruga nel paradosso di Zenone e per quanto mi impegni, per quanto corra, per quanto mi senta più veloce di una sfigata testuggine, porca miseria, non la raggiungo mai.
È allora, nei momenti di maggiore sconforto, che penso a un altro papà. Il mio.
Papà era di origini umili: bambino nel pieno della Seconda guerra mondiale nella Sesto San Giovanni bombardata, figlio di un prestinaio e di una casalinga, insieme ad altri sette fratelli. A casa sua c’erano a stento i soldi per mettere insieme il pranzo con la cena, e per i vestiti ci si arrangiava, tanto che l’abito di matrimonio glielo avrebbe pagato la famiglia di mamma.
Era un uomo taciturno e ombroso, tutto casa e chiesa, nel vero senso della parola.
Con un lavoro da impiegato, papà ha mantenuto da solo una famiglia di sei persone, lui, mia mamma che ha sempre fatto la casalinga e quattro figli maschi. Tutti con secondo nome Maria, per invocare la protezione della Madonna, a proposito di chiesa.
Ecco, lui sì che avrebbe potuto ben dire «Non ce la faccio». Ma non gliel’ho mai sentito pronunciare.
Come hai fatto, papà?
C’è stato un periodo della vita in cui ha svolto due lavori contemporaneamente, è successo appena sposato. I quattro figli sono arrivati nell’arco di cinque anni e un mese (povera mamma, magari un abbonamento a teatro per la sera non sarebbe stato male come alternativa…), nel frattempo papà ha comprato negli anni due case, quella a Sesto San Giovanni e quella in montagna, ha mandato quattro figli all’università e me negli Stati Uniti quando volevo fare la vacanza studio in California.
Certo, non ricordo di averlo mai visto comprare un abito firmato, un paio di scarpe alla moda, una camicia griffata. Non l’ho mai visto entrare in un bar e bere una birra o un caffè. Quando si trattava di comprare l’auto andava dal concessionario, rigorosamente solo Opel («Ma perché, papà?» «Ah, solo macchine tedesche.» E fine della questione) e comprava la prima a disposizione. Ricordo viaggi da Milano a Napoli in sei, stipati su una Opel Kadett 1000 color oro. No, dico, color oro («Papà, ma perché questo colore?» «Eh, c’era disponibile solo questa.» Chissà perché, fatti una domanda).
Due volte l’anno, in genere il sabato, a metà mattinata se ne usciva improvviso con un: «Dai, che oggi vi porto al ristorante», Era un evento. Noi quattro fratelli ci vestivamo in fretta e furia perché si andava a mangiare pesce, con mamma che borbottava perché in fondo non vedeva la necessità di andare a buttare via i soldi così.
Papà viveva nella famiglia, per la famiglia. Il suo mondo era lì, immenso e al tempo stesso finito, con dei contorni precisi, nitidi. Metodico fino all’ossesso. La sveglia, sul posto di lavoro alle otto, a casa per il pranzo alle dodici e trenta, la lettura del giornale, rientro al lavoro alle quattordici, a casa alle diciannove. E lì, appena varcata la soglia, dopo aver dato un bacio a stampo sulle labbra a mamma, compiva un gesto che per me è rimasto per sempre avvolto nel mistero. Si avvicinava alle finestre e tirava giù le tapparelle, girando la manovella, anche se eravamo in piena estate, con una luce ancora intensa nel cielo.
Per anni l’ho vissuto come un modo claustrofobico di approcciare la vita, ma se gli si chiedeva conto di quell’azione lui bofonchiava e non rispondeva. Probabilmente quello che a me sembrava un segnale di esclusione, a lui appariva come un gesto rassicurante. Come a dire: I miei affetti sono qui, siamo tutti rientrati nel nido, non ho bisogno di altro, anzi è bene che l’altro, qualunque cosa sia, rimanga lontano, fuori. Noi bastiamo a noi stessi. Come del novelli Croods (avete presente la famiglia del film del cavernicoli?).
Come hai fatto, papa?
Me lo chiedo ora, dopo tanti anni, nel buio della mia camera, senza mal avertelo chiesto di persona.
Mi ha raccontato le favole quando ero bambino, faceva le vocine, soprattutto quando interpretava Braccio di Ferro che, dopo aver ingolato gli spinaci, spaccava i denti allo squalo e io ridevo, ridevo, ridevo al sentire la voce del pescecane sdentato.
E quando avevo paura di addormentarmi al buio, lui, nonostante fosse stanco dopo una giornata di lavoro e volesse godersi solamente un po’ di pace, stava lì sulla soglia della camera, ritto, sbirciando la tv che era in sala, ad almeno dieci metri di distanza.
Gli ho fatto perdere così chissà quanti programmi, eppure non me l’ha mai fatto pesare.
A un certo punto, non ricordo che età avessi, ho percepito che non fossero rimasti molti soldi sul conto corrente di famiglia, era più una sensazione o l’interpretazione di alcune frasi smozzicate di mamma, eppure papà non ha mai mostrato un segno di preoccupazione, almeno nei confronti di noi figli. Soprattutto, non l’ho mai visto saltare una rata del mutuo, o non pagare una tassa o una multa. Ha sempre fatto della rettitudine e dell’umiltà un vanto. Ha lavorato una vita intera, eppure non ha mai pronunciato espressioni come «fare carriera».
Il massimo della sua trasgressione è stato tornare qualche volta dall’ufficio con le tasche piene. Ricordo che in quelle occasioni chiamava di soppiatto noi fratelli, come se avesse fatto la marachella del secolo, si frugava nella giacca e metteva sul tavolo qualche matita, due penne e una gomma per cancellare, di quelle tedesche, bianchissime.
E poi sogghignava: «Eh, eh, le ho prese dalla cancelleria».
Non si è mai lamentato, mai. Nemmeno quando mio fratello maggiore si è ammalato gravemente, schizofrenia disorganizzata, e ha imboccato un sentiero – quello sì- scosceso, ripido, pieno di sassi, tutto suo, incomprensibile a noi sani di mente.
Non si è mai lamentato nemmeno quando è comparso il tumore, una banale ferita dietro l’orecchio, un basalioma, che poi negli anni si è incuneato nella testa, fino a portarcelo via.
Mamma lo medicava, con pazienza, lui ogni tanto cacciava un mezzo urlo di dolore, ma mai una protesta sul perché a lui, mai un’imprecazione sul senso della vita.
In punto di morte, proprio al momento dell’estrema unzione, anche se ormai per tutti noi non connetteva più, ha allungato la mano sinistra per cercare quella di mamma, e toccarle la fede.
Come cavolo hai fatto, papa?
No, perché, a me qui sembra di annaspare, solo che al contrario tuo borbotto, mi lamento, impreco.
Visto che non te l’ho mai detto, lo faccio ora: sei la mia più grande risorsa, la mia scialuppa di salvataggio, quando il mare s’ingrossa. Il mio papà.
Pensare a come diavolo tu abbia potuto farcela, e imitarti. Ecco cosa devo fare. Anche se sono per certi versi l’opposto. Non tiro mai giù una tapparella in casa mia, nemmeno di notte, perchè un piccolo baarlume di luce mi possa indicare sempre il percorso, parlo tanto, mentre tu eri taciturno fino a prendere le sembianze di un orso bruno.
Sì, ho deciso. Ti prometto questo: la prossima volta che Angelica o Mattia mi diranno «Papà, sei il nostro eroe, perchè ti dedichi tanto a noi» (è successo, una sola volta, ma è accaduto) io risponderò: «Io eroe? Avreste dovuto vedere il mio papà. Il nonno Gianfranco»
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da Papà Stories, Il Sole 24 Ore, 2022
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immagine dal web
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