centro cultural tina modotti Virgina Walter Georges Duroy
Da sei settimane tentava di romperla con lei senza riuscire a stancare il suo ostinato attaccamento.
Dopo la caduta, ella aveva avuto crisi di rimorsi spaventosi, e, durante tre appuntamenti di fila, aveva oppresso l’amante con rimproveri e maledizioni. Seccato da quelle scene, e già sazio di quella donna matura e drammatica, si era semplicemente allontanato, sperando che l’avventura sarebbe finita in questo modo. Ma allora, ella gli si era attaccata disperatamente, gettandosi in quell’amore come ci si getta in un fiume con una pietra al collo. Egli si era lasciato riprendere, per debolezza, per compiacenza, per riguardo; e lei lo aveva chiuso in una passione sfrenata e affascinante, lo aveva perseguitato con la sua tenerezza.
Voleva vederlo tutti i giorni, lo chiamava ogni momento con telegrammi per incontri rapidi agli angoli delle strade, nei negozi, in un giardino pubblico.
Gli ripeteva allora, con qualche frase, sempre le stesse, che lo adorava, lo idolatrava, poi andava via giurandogli che “era tanto felice di averlo veduto”.
Ella gli si era rivelata diversa da come l’aveva immaginata; cercava di sedurlo con grazie puerili, fanciullaggini amorose, ridicole alla sua età. Essendo rimasta fino allora completamente onesta, vergine di cuore, chiusa a ogni sentimento, ignorante di ogni sensualità, era nata adesso in lei, – in quella donna calma, i cui quarant’anni somigliavano a un autunno pallido dopo una fredda estate, – come una primavera appassita, piena di piccoli fiori venuti male e di germogli abortiti, una strana fioritura d’amore da ragazzina, d’amore tardivo, ardente, ingenuo, fatto di slanci improvvisi, di piccole grida di sedicenne, di moine imbarazzanti, di grazie invecchiate senza essere state giovani. Gli scriveva dieci lettere in un giorno, lettere stupidamente pazze, in uno stile bizzarro, poetico e buffo, fiorito come il linguaggio degli indiani, pieno di nomi di bestie e di uccelli.
Appena erano soli, lo abbracciava con grazie pesanti da ragazzina grassa, smorfiette un po’ grottesche, vivacità che facevano traballare il petto troppo grave sotto la stoffa del corpetto. Lo opprimeva soprattutto sentirla dire: “Topo mio”,”Cagnolino mio”, “Gattino”, “Gioiello”, “Mio uccellino azzurro”, “Mio tesoro”, e di vederla offrirsi ogni volta, con una meschina commedia di pudore infantile, di piccoli gesti timorosi che a lei sembravano amabili, e con giochetti da educanda depravata.
Ella domandava: “Di chi è questa bocca?”. E se lui non rispondeva subito: “È mia”, ella insisteva fino a farlo impallidire dall’esasperazione.
Gli sembrava che ella avrebbe dovuto sentire come, in amore, sia necessario un tatto, una destrezza, una prudenza, un senso estremo dell’opportunità, e che essendosi data a lui, lei, già matura, madre di famiglia, signora della buona società, doveva abbandonarsi con serietà, con una specie di impeto contenuto, severo, anche con le lacrime, ma le lacrime di Didone, non quelle di Giulietta.
Ella gli ripeteva continuamente: “Come ti amo, piccino mio! Mi ami anche tu altrettanto, dimmi, mio bebé?”.
Non poteva sentirle dire “piccino mio” e “mio bebé” senza aver voglia di chiamarla “la mia vecchia”.
Ella gli diceva: “Che pazzia ho fatto dandomi a te. Ma non la rimpiango. È così bello amare!”.
A Georges tutti quei discorsi, su quella bocca, sembravano urtanti. Ella mormorava: “E’ così bello amare”, come l’avrebbe detto un’ingenua, sulla scena.
Lo esasperava poi la goffaggine delle sue carezze. Divenuta improvvisamente sensuale sotto i baci di quel bel ragazzo che le aveva acceso tanto violentemente il sangue, ella metteva nel suo amplesso un ardore maldestro e un’attenzione grave che facevano ridere Du Roy a cui suggerivano l’idea dei vecchi che imparano a leggere.
Quando avrebbe dovuto stringerlo tra le braccia fino a fargli male, fissando su di lui quello sguardo profondo e terribile che hanno certe donne appassite, superbe nel loro ultimo amore, quando avrebbe dovuto morderlo con la bocca muta e fremente schiacciandolo sotto la sua carne opulenta e calda, affaticata ma insaziabile, ella si dimenava come una ragazzina, e per essere graziosa diceva leziosamente:
“T’amo tanto, piccino mio. T’amo tanto. Dai tanto amore alla tua mogliettina”.
Georges, allora, sentiva una voglia pazza di bestemmiare, prendere il cappello e andarsene sbattendo la porta.
Nei primi tempi si erano visti spesso, in rue de Constantinople, ma Du Roy, che temeva un incontro con la signora de Marelle, trovava adesso mille pretesti per evitare gli appuntamenti.
Allora, aveva dovuto andare quasi ogni giorno da lei, a colazione, o a pranzo. Ella gli stringeva la mano sotto la tavola, gli tendeva le labbra dietro le porte. Ma a lui piaceva soprattutto giocare con Suzanne che lo divertiva con le sue stranezze. In quel corpo di bambola si agitava uno spirito agile e maligno, imprevisto, sornione, che rappresentava sempre la farsa come i burattini delle fiere. Ella si beffava di tutto e di tutti, con prontezza mordace. Georges eccitava il suo brio, la spingeva all’ironia, e s’intendevano a meraviglia.
Ella lo chiamava ogni momento: “Bel-Ami, sentite; Bel-Ami, venite qui”.
Ed egli lasciava subito la madre, per correre dalla fanciulla che gli sussurrava qualche malignità nell’orecchio, e tutti e due ridevano di cuore.
Intanto, l’amore della madre lo disgustava sempre più, fino a provocare in lui un’insormontabile ripugnanza; non poteva più né vederla né sentirla, né pensare a lei senza ira. Smise allora di andare in casa sua, di rispondere alle sue lettere e di cedere ai suoi inviti.
Ella comprese infine di non essere più amata e soffrì orribilmente. Ma si ostinò a spiarlo, a seguirlo; lo aspettò in una vettura con le tende abbassate, alla porta del giornale, alla porta di casa sua, nelle strade dove sperava che sarebbe passato.
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Guy de Maupassant, tratto da Bel Ami, F.lli Treves, Milano, 1895
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