cctm collettivo culturale tuttomondo Un gatto per i giorni difficili
«Kagawa Shuta. Ho venticinque anni.»
«Cosa la porta qui?» chiese il dottore con noncuranza. Shuta era teso. Quella stessa scena si era già ripetuta molte volte. I medici, dopo averlo ascoltato per il tempo prestabilito, gli davano le solite risposte: «Dev’essere dura. Non deve lavorare così tanto. Grazie per essere venuto da noi».
Per qualche ragione, alcuni addirittura lo ringraziavano, e poi gli prescrivevano tutti le stesse identiche medicine. Erano i sonniferi che miglioravano la situazione, non le quattro frasi dei dottori.
«Io…» Insonnia, acufene, perdita dell’appetito. Quando pensava al lavoro avvertiva un dolore al petto, entrava in affanno e non riusciva a dormire. Erano sintomi talmente comuni che i medici li prendevano sottogamba. Stavolta si sarebbe spiegato per bene: aveva bisogno di trovare una via d’uscita.
Inavvertitamente, però, le parole diedero voce a quel che pensava veramente.
«Voglio licenziarmi» mormorò.
«Ah, davvero?» ribatté subito il dottore.
Shuta trasalì.
«Oh, no. Non dicevo sul serio. Non mi voglio licenziare. Vorrei solo trovare un modo per rimanere nella mia azienda. È una nota società di brokeraggio, di quelle che si vedono nelle pubblicità alla tv, ma è un ambiente di lavoro molto tossiсо.»
«Capisco» rispose il dottore senza scomporsi. «Le prescrivo un gatto e vediamo come va.» Quindi ruotò sulla sedia, rivolgendogli le spalle. «Chitose, porta un gatto»
«Subito» disse una voce dall’altro lato della tenda, e ricomparve l’infermiera che lo aveva accolto. Shuta non lo aveva notato prima, ma adesso non poté fare a meno di restare colpito dal suo aspetto: non era appariscente, ma la si poteva senz’altro definire bella. La donna posò i grandi occhi luminosi su di lui e gli rivolse uno sguardo sospettoso, quindi parlò al dottore con un pizzico di freddezza: «Dottor Nike, sei sicuro che lui vada bene?».
«Ma sì, andrà benissimo» replicò serenamente il medico.
Quella era una clinica eccentrica, e anche il nome del dottore era ben strano.
L’infermiera posò sulla scrivania il trasportino che aveva portato con sé e se ne andò in silenzio. Era un trasportino dei più semplici, di plastica, con una grata su un lato.
E all’interno c’era davvero un gatto.
Shuta rimase a bocca aperta dinanzi a quello sviluppo improvviso, che lo lasciò stordito e senza parole. Prese a guardare attentamente l’animale che gli stava davanti: un gatto in carne e ossa, grigio, senza particolari caratteristiche distintive. Non riusciva a vederlo bene, infilato com’era nel trasportino, ma gli occhi erano grandi, tondi e dorati, e lo fissavano con diffidenza.
«Allora, signor Kagawa, intanto provi per una settimana» disse il medico.
«Va bene.»
«Le scrivo la ricetta. La porti alla reception.»
«Mi scrive… la ricetta?»
«Certo che sì.»
Parlava normalmente, ma la situazione era tutto fuorché normale. Shuta guardò nel trasportino e domandò: «Questo… è un gatto?».
«Sì, è un gatto» rispose il medico, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Certamente sembrava un gatto, sotto ogni aspetto, ma Shuta non se ne capacitava.
«Ecco la ricetta. Prenda quello che le serve alla reception e poi se ne torni a casa. Quanto a noi, ci vediamo tra una settimana. Ho un paziente in attesa, perciò, se non le spiace…»
Indicò la porta, invitandolo ad andarsene. Finalmente, Shuta in qualche modo tornò in sé. Gli uscì, spontanea, una risata.
«Ah, questa è quella che chiamano pet therapy, no?»
Ora capiva: si trattava di curare la mente tramite il contatto con gli animali. Shuta rideva, ma il medico rimase impassibile; sembrava che stesse valutando la situazione.
«Quindi, anche cogliere in contropiede i pazienti rientra nella terapia? Capisco. È per questo che non ho trovato informazioni da nessuna parte. Davvero sorprendente, non ci stavo capendo più nulla. Prescrivere un gatto… che idea interessante.»
Shuta si avvicinò al trasportino e sbirciò dentro. Il gatto, a occhi spalancati, non distoglieva lo sguardo da lui.
Non ne sapeva molto di animali, e anche il gatto sembrava un po’ frastornato. Shuta sorrise amaramente.
«Che carino. Però, per qualche ragione, sembra che io non gli piaccia proprio.»
«Eh? Mi faccia vedere» esclamò il dottore, avvicinandosi così tanto alla faccia di Shuta che per poco le loro guance non si sfiorarono. Quell’intimità lasciò Shuta di stucco, ma il dottore pareva non curarsene. Sfiorò con la punta del naso la grata del trasportino e fissò attentamente dentro. «Mmh… Ma no, va tutto bene. Sì, dice che va tutto bene.»
«No, non lo sta dicendo. Dice che è spaventato.»
«Ah, sì? Vediamo un po’.»
Il dottore appoggiò di nuovo il naso al trasportino. Era così vicino all’animale da far preoccupare Shuta.
«Che c’è, non va bene? Ma sì che va bene, no?» Il medico staccò il viso, poi sorrise.
«Dice che non ci sono problemi.»
«No, non è così. I gatti hanno paura della gente come me, che non è abituata agli animali. Lo so che si tratta di una terapia, ma non le fa un po’ pena?»
«Non si preoccupi. I gatti sono efficaci in ogni caso. Ora deve proprio andare, c’è un paziente che aspetta» replicò il dottore. Afferrò il trasportino e lo posò sulle gambe di Shuta.
«Eh? Aspetti un attimo.»
«Ci vediamo tra una settimana.»
Il sorriso del dottore non lasciava spazio alle obiezioni …
Syou Ishida
da Un gatto per i giorni difficili, Rizzoli, 2024
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