cctm collettivo culturale tuttomondo Gabriele Romagnoli Il postino

Il postino di Gabriele Romagnoli (Bologna, 1960)
In fondo ho sempre lavorato nella comunicazione: oggi nell’editoria, ieri alle Poste. A vent’anni ho fatto il portalettere. Turni trimestrali, durante gli studi all’università. Si veniva chiamati e poi lasciati a riposo per qualche mese, impedendo la continuità che avrebbe prodotto l’assunzione.
Studiavo Giurisprudenza, ma sognavo di scrivere e mi chiedevo se, per farlo, avesse più tempo libero un avvocato o un postino. Nell’attesa, tenevo il piede in due scarpe. Quella lontana esperienza è stata indimenticabile, per molti motivi.
Il primo giorno di lavoro fu un 3 novembre. E Bologna venne sommersa da una nevicata. Nell’elenco delle cose che il tempo ha diradato, fino a cancellarle, figurano entrambe: la neve in città e la corrispondenza nella cassetta. Non lo sapevo, ma stavo vivendo in una capsula, di quelle che si sotterrano per testimoniare come era la vita sulla Terra in un qualche passato: in Italia, all’inizio degli anni Ottanta
Il postino era sempre stato un personaggio regolare della mia infanzia, quando vivevo in una palazzina con giardino e ogni giorno verso le 11 si affacciava lo stesso tizio con i baffi, la divisa e la borsa a tracolla, un caratterista della vita di quartiere, come l’arrotino o il venditore porta a porta dell’Unità. Non immaginavo che poi, per qualche mese all’anno, quella parte l’avrei interpretata io. Né avevo idea di come funzionasse. La mia sezione designata era alla stazione centrale, dove mi presentai puntuale alle 7. Fui condotto a uno stanzone pieno di schedari in metallo dove decine di uomini infilavano buste. Nemmeno una donna, all’epoca. Una specie di caserma: barzellette e aneddoti in sintonia.
Non un lavoro difficile, ma neppure così semplice come appariva nel ruolo del destinatario. Si trattava di disporre la posta seguendo la rotta che si sarebbe percorsa così da trovare la corrispondenza nella borsa in ordine di consegna. Metà, almeno: l’altra metà veniva messa in un sacco e lasciata in un punto d’appoggio lungo la strada, nel mio caso una tabaccheria.
In autobus con il maltempo o in motorino (un Ciao con il variatore che mi consentiva le salite) mi avviavo all’inizio della mia rotta. La borsa conteneva il vaso di Pandora: buste colorate dagli indirizzi scritti con calligrafie eleganti, tremanti o a stampatello (lettere anonime?); cartoline (ve le ricordate, le cartoline?) da luoghi lontani di cui era quasi impossibile non sbirciare il testo; gli auguri a Natale, montagne di auguri su biglietti colorati o stampati con la fotografia dei nipoti; bollette; saldi bancari; multe; pagamenti.
Quando suonavo per farmi aprire, la voce giovanile destava stupore e iniziale diffidenza, in seguito la novità del postino-studente faceva simpatia. Il momento più entusiasmante era la consegna della pensione. Seguivano ringraziamenti, mance, inviti a prendere il caffè, tutti accettati, per essere sveglio durante lo studio pomeridiano.
Tempo dopo mi sarei ritrovato a pensare che il giornalista sia un po’ come il postino: porta informazioni, notizie, talvolta buone e accolte con il sorriso, talaltra cattive, che ingenerano tristezza. Dalla borsa ho estratto qualche cartolina di leva, qualche busta listata di nero, lettere in cui perfino l’indirizzo era vergato con rabbia e una cartolina postale (esisteranno ancora?) su cui era scritta a stampatello una sola parola: SPEGNITI. La depositai con particolare cura nella cassetta.
C’erano sempre porte che si socchiudevano al pianerottolo più basso, per cercare di capire chi riceveva che cosa. Si lasciavano avvisi ai destinatari di posta speciale risultati assenti e in tre mesi c’è chi presente non lo è stato mai: pile di foglietti gialli che uscivano dalla cassetta. Fantasmi. Emigrati. Disinteressati a ogni tipo di comunicazione. E i cani. Non è una barzelletta che ce l’abbiano con i postini. Di certo, con quelli nuovi e sconosciuti. Poi, quando avevamo fatto pace, quando ero noto alle pensionate e ai portieri il mio turno finiva e riapparivo mesi dopo in una zona diversa.
La mia breve carriera felice di postino finì a causa di un incidente. O meglio, per quello che, nella categoria, è una specie di crimine federale: persi una raccomandata. Andò così. Mi era capitata una zona ampia, di case sparse, alla periferia estrema della città, una quasi campagna che cominciava oltre un passaggio a livello, alle spalle di un indirizzo reso famoso da Francesco Guccini: via Paolo Fabbri 43.
In una mattina di primavera fui sorpreso da un temporale, non una semplice pioggia, un acquazzone. Parcheggiai il motorino e cercai riparo per evitare che le lettere si infradiciassero. Trovai un casolare con un annesso, una sorta di fienile ai margini della città. Entrai, radunai un po’ di paglia, mi sedetti e, appoggiando la borsa al mio fianco, aspettai che spiovesse. Passarono i minuti. Sentii un suono strano, ma non ci feci caso. Poiché proseguiva, mi voltai per trovarne l’origine: un coniglio. Un coniglio stava rosicchiando una busta che sbucava dalla mia borsa: una raccomandata. Ne aveva già sbriciolato un terzo, rendendola impresentabile, ovvero non consegnabile. Lo fissai incredulo, tardando ad allontanarlo mentre, impassibile, continuava la sua opera di distruzione.
Quando il cielo tornò sereno io non lo ero più. Dovevo, a fine giro, tornare in sede e ammettere quella imperdonabile mancanza. Che cosa potevo dire? Dissi: «L’ho persa, ho smarrito una raccomandata». L’alternativa, la verità, come spesso accade, era implausibile. Meglio la reputazione da distratto che quella di uno che si era fatto fregare da un coniglio.
Rassegnai le dimissioni e iniziai a collaborare con un quotidiano locale. Da un mestiere in via di estinzione all’altro. Oggi chi scrive più lettere da affrancare e affidare a un messaggero? Con le email si è eliminato il tramite. Vale anche per le comunicazioni ufficiali. Allo stesso modo persone di spettacolo, sportivi, politici, perfino la premier, si affidano ai social e non alle interviste per fare rumore. Rumore: ora la comunicazione è questo, un rumore di fondo incessante e non selezionato. Vuoi mettere le ruote sulla neve, la calligrafia sulla busta, il coniglio in agguato?
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foto dal web
Gabriele Romagnoli, scrittore e giornalista, è nato a Bologna nel 1960.
Già inviato a New York del quotidiano La Stampa, ha diretto Rai Sport dal 2016 al 2018. Scrive su Repubblica e Vanity Fair e annovera collaborazioni con quotidiani e periodici come Diario e Avvenire. Il suo debutto nella narrativa risale al 1987, quando pubblica il racconto Undici calciatori all’interno dell’antologia Giovani Blues, curata da Pier Vittorio Tondelli. Nel 1993 firma Navi in bottiglia. 101 microracconti, a cui seguono Oggetti da smarrire, In tempo per il cielo, Videocronache, Passeggeri e Louisiana blues. Nel 2004 esce il suo primo romanzo, L’artista, con cui si aggiudica il Premio Garda. Le opere successive continuano a rispecchiare le principali vocazioni dell’autore bolognese, siano esse prove di narrativa (Il vizio dell’amore, Solo i treni hanno la strada segnata, Un tuffo nella luce) o reportage (Domanda di grazia), con un interesse sempre vivo per il racconto di viaggio, come ben esemplificano Non ci sono santi, itinerario attraverso l’Italia che giornali e TV non riescono a raccontare, e Solo bagaglio a mano, in cui trolley e valigie ridotte all’osso divengono metafore di una società in continuo movimento. Tra i suoi libri più recenti: Cosa faresti se (2021), Sogno bianco (2022) e La prima cosa bella (2024), raccolta dei migliori microracconti dell’omonima e fortunata rubrica quotidiana che tiene sulle colonne di Repubblica.
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