collettivo culturale tuttomondo Simone Tolomelli (Italia)
tratto da Polpo, una selezione dall’omonima newsletter di Simone Tolomelli
È martedì quattordici febbraio, e il quattordici febbraio è una data. Ce ne sono altre trecento sessanta quattro, nella mia vita coniugale non succede niente. La mattina del giorno di san Valentino prendo il motorino e vado all’appuntamento che ho con mio zio, alla pasticceria Clivati, in viale Coni Zugna, a Milano. Pasticceria che la sera della vigilia di natale è bruciata, tanto, non poco. Ma hanno aperto un temporary, lì dietro. Spostiamo l’appuntamento di cento metri, mi metto all’angolo con via Solari, ho parcheggiato il motorino lì davanti. È un martedì, c’è il mercato di viale Papiniano, e c’è un bordello grande così il martedì in viale Papiniano. Duecento vite fa, a due metri di distanza da dove mi trovo ho ambientato l’inizio di un racconto che finiva con un omicidio.
Arriva mio zio, facciamo colazione. Finiamo e usciamo, saluti e baci, entro nel mio ufficio, dirimpettaio di Clivati, il temporary, sono le dieci del mattino. Sono le dieci del mattino. Le dieci. Del mattino.
Quello stesso giorno alle quattro meno un quarto ho una visita importante, ho per la prima volta prenotato allo IEO per farmi guardare i nei e poi una serie di altre menate cutanee che non ho più intenzione di ignorare, long story short: va tutto benone. La sede più comoda è a circa due chilometri da me, quindi scendo alle tre e mezza. In ascensore faccio il controllo automatico: ho il telefono, ho il portafoglio, non mi serve altro, ho le chiavi di casa che non mi servono, ho le chiavi del motori… non ho le chiavi del motorino. Come non ho le chiavi del motorino? Eh, non ho le chiavi del motorino. Ma figurati, le avrò messe. No. Non ce le ho. Le avrò mica lasciate attaccate al motorino? Cazzo, dai no. Dico uscendo e cercando con lo sguardo il motorino. Che non c’è.
Mi hanno rubato il motorino.
Deglutisco la rabbia e cerco di capire cosa fare superando lo stato di shock come quando a metà stagione sembra che tutto stia andando per il meglio e poi gli rapiscono pure la moglie, e allora Jack Bauer strizza un attimo gli occhi per poi ripartire come un treno. Quell’attimo di precario equilibrio che ti mette in modalità gestione-delle-criticità. Chiamo Laura. Laura mi fa un culo così, mossa sbagliatissima. Le spiego che questa volta il fatto che non abbia messo la catena non c’entra. Ho proprio lasciato le chiavi attaccate al bauletto, il ladro le avrebbe ovviamente prese, e aperto qualsivoglia catena. E penso anche al sangue freddo del ladro. Nessuno sa che è un ladro, tranne lui e io. Tutta la sua professione ha come unica base d’appoggio il fatto che solo in due sanno cosa sta accadendo, e solo di me si deve occupare. Quando è abbastanza sicuro di potermi scartare non deve fare altro che avvicinarsi, prendere le chiavi, partire. Comunque mia moglie a suo modo mi aiuta e scardina il blocco mentale che mi lasciava immobile sul marciapiede. Mi dice: chiama un taxi e lo IEO dicendo che arrivi in ritardo. Ok.
Chiamo il taxi, sono all’angolo tra Coni Zugna e Solari. Il tassista non mi trova, va detto che i tassisti difficilmente hanno fatto ingegneria. Richiamo il numero dei taxi, la tipa mi chiede scusa. Le dico «mi hanno rubato il motorino, ho un appuntamento importante, può fare in modo che arrivi l’auto per piacere?», si scusa nuovamente e mi dice che prenderanno provvedimenti con l’autista precedente: non me ne frega niente di niente, sono in safe-mode, mi occupo solo di quel che mi riguarda. Me ne mandano un altro. In totale passano dieci minuti. Quando salgo gli dico di portarmi il più in fretta possibile in via San Luca, mi risponde chiedendomi se va bene svicolare da dietro corso di porta Genova, perché ci sono i lavori della metropolitana, gli dico di sì, che faccia lui, perché non sono concentrato e devo fare altro. Infatti sono al telefono con lo IEO, dico loro che sto arrivando, ho avuto un imprevisto, mi hanno rubato il motorino, sono in taxi e sto arrivando, dico. Mi rispondono che non c’è problema. E questo dialogo succede mentre il taxi sta sbucando fuori da una via che conosco pochissimo, so di essere dietro a corso di Porta Genova ma ricordo di esserci passato davvero raramente, e con la coda dell’occhio vedo parcheggiato in un angolo di un largo marciapiede un motorino come il mio.
Il mio motorino è un Kymco 125, che è il motorino che costa di meno in assoluto perché io sto ai maschi con la moto come il Divino Otelma al rugby. Avevo bisogno di un mezzo, un po’ più solido e adulto di un cinquantino, e lo volevo all’istante. In pronta consegna c’era quello che costava niente, l’ho comprato. Ma non devo essere stato l’unico, Milano è piena zeppa di 125 Kymco, coreani di plasticona che emulano l’Honda SH con la non poco invidiabile particolarità che non te li rubano quanto gli SH. Ma se ci lasci le chiavi attaccate, insomma.
E mentre parlo con la segreteria dell’ospedale mi giro e seguo con lo sguardo quel motorino lì, di cui non riesco a vedere i segni particolari per escludere a priori non sia il mio. Ma sono le quattro del pomeriggio. Sono in ritardo di un quarto d’ora per la visita, il mio motorino l’ho visto l’ultima volta alle dieci del mattino, basta: è rubato.
Uscito dallo studio del medico ho le idee un po’ più chiare e il cuore più sereno. Richiamo Laura, altro errore, è ancora più incazzata di prima, non la scalfisce particolarmente il fatto che sia abbastanza sano: le priorità di mia moglie. Decido cosa devo fare. Prendo una macchina di qualche car-sharing e torno in ufficio, oramai sono le cinque meno venti, salirò, prenderò i documenti del motorino, andrò a fare la denuncia e chiamerò l’assicurazione. Da corso di Porta Romana a Papiniano non posso rifare il giro del taxi, c’è un quarto di orologio obbligatorio da percorrere in senso orario, un cerchio più giù.
Arrivo sotto l’ufficio e mi dico no, ‘fanculo no. Io così muoio con nel cuore il mio motorino parcheggiato in un angolo e io che non ho controllato, no: io adesso vado e mi tolgo il tarlo. E allora cerco di ricordare la strada che ha fatto il tassista, e la trovo, arrivo, mi batte il cuore. Sono passate due ore, figurarsi se è ancora lì: ed è ancora lì. Mollo la macchina a caso, non c’è nessuno, mi batte il cuore, mi dico ma dai ma tu pensa se, corro un po’ ma ho il fiatone perché sono quarantenne da un mese e mezzo e non faccio sport. Insomma arrivo lì e più mi avvicino più non capisco. Poi arrivo lì e finalmente lo guardo, lo tocco, lo vedo per bene. E non è il mio motorino, ovviamente. Simone Tolomelli
Quindi niente, questa storia poteva finire così. Con me che sono un po’ mogio perché, be’ dai sì, un po’ ci avevo creduto. Faccia di velluto. Giro a destra, soprappensiero e facendomi riportare in ufficio dall’istinto. Sono a trecento metri, ma c’è tutto un intricato giro di sensi unici che devo fare per ribeccare viale Papiniano nel verso giusto, mi arriva un messaggio sull’iPhone, e lo controllo altrettanto distrattamente mentre freno e mi fermo perché con la coda dell’occhio vedo la schiena di un vigile in mezzo alla strada che a braccia larghe sta facendo attraversare due bambini usciti da scuola. Se vi dico tutto ciò è perché è importante, tutto è importante Simone Tolomelli
Sono in un incrocio di micro vie a senso unico di cui non conosco il nome, a un paio di isolati da dove devo andare e quello là non era il mio motorino, analizzo il tutto mentre sono fermo con il vigile che rialza il braccio e fa cenno di partire, ho gli occhi che guardano in un punto qualunque in mezzo alla strada, il cervello si occupa di due cose: non uccidere bambini e rimuginare che no, diamine, non era il mio motorino. Sento un bambino che strilla alla mia sinistra, so di non averlo ucciso io e ho il vigile alle mie spalle che può testimoniare in tribunale, ma quanto rimane della mia empatia mi fa girare, rallentando. Niente, è solo caduto. E quello là non era il mio motorino.
Ma questo perdio sì, invece.
Parcheggiato con il bloccasterzo inserito, in riga con altri venti lungo il marciapiede di una via che ho imboccato per sbaglio, verso il quale non mi sarei mai girato se non fosse stato per il bambino con un ginocchio sbucciato. Eppure il caso vuole, eccetera. Potrebbe finire qui. Ma no.
Mollo l’auto, metto le doppie frecce. Mi avvicino un po’ incredulo, è decisamente lui, il bauletto è aperto: c’è dentro il mio casco. Vedo il vigile che sale in auto con il collega, corro verso di lui. Ehi, gli dico, ehi: senta, può venire un secondo? Ho l’aria trafelata e il fiato corto perché non so se vi ho già detto che sono un quarantenne che è anni che non fa alcuna attività fisica e ha appena percorso otto metri in corsetta leggera. Lui mi segue e aggiungo che anche se è difficilissimo da spiegare, questo che vede, è il mio motorino che mi hanno appena rubato. Mi chiede se l’ho denunciato ma rispondo di non averne avuto il tempo, avevo una visita medica importante, l’avrei fatto ora ma l’ho ritrovato, appena rubato. Appena, è una parola ambigua, diciamo che non posso garantire per il mezzo dalle dieci del mattino. Si avvicina il collega e tocca il manubrio dicendo: però c’è il bloccasterzo. Non posso più nascondermi, tocca denunciare che sono un pirla. Sì, dico: lo so. È che me l’hanno rubato perché ho lasciato le chiavi attaccate ma posso dimostrare che è mio, ho i documenti qui vicino. Mi dicono che non c’è bisogno, inserendo il numero di targa nel loro iPhone esce fuori il mio nome. Mostro la carta di identità, tutto va a posto. Lo prenda pure, mi dicono. Eh, lo prenda pure… non ho le chiavi. Intanto prendo il casco e lo tengo stretto perché penso due cose. Simone Tolomelli
La prima è che chiamo Laura: non ci crederai, le dico, ho trovato il motorino. Non è più incazzata ora: eh, facile così. La seconda cosa che penso è che se il tipo che l’ha rubato è grosso, e con me “grosso” è una questione di poco, io sono uno che le prende e quindi meglio avere il casco, magari non da tirargli addosso ma da mettersi in testa (vale la pena sottolineare che Laura nella sua versione Stratega anche nota ai più come Barbie J.I.Joe, consigliava di stare un paio di metri più distante per non manifestarsi esplicitamente come il proprietario del mezzo agli occhi del malintenzionato che fosse tornato sul luogo della sospensione del delitto). Ringrazio i vigili che nel frattempo hanno aspettato andassi a parcheggiare l’auto a noleggio e torno, sempre in corsetta, sfiatato. Da qui in poi ci penso io. Simone Tolomelli
Chiamo un amico, gli chiedo di venire dove sono io, e che Laura ha il doppione ma è a sei chilometri di distanza e incidentalmente nell’atto di accudire due gemelle. Uno deve stare lì, questo è il punto. Perché se torna il ladro, lui ha le chiavi, sale su e lo porta via. E quello è il mio cazzo di motorino. Mi dice che non sa se può aiutarmi per un impegno precedente ma ne parliamo un attimo ad alta voce, la cosa mi aiuta a concentrarmi. Sono solo. Con il mio casco in mano. Vedo che per terra c’è un sacchetto, mi era sembrato un sacchetto qualunque. No. È un sacchetto di stoffa con stampato lo sviluppo della scatola di cartone dell’Ortolina. È il mio sacchetto con la grafica dell’Ortolina, lo riprendo e lo metto nel bauletto. Non so perché questa cosa mi ha istintivamente convinto a frugare nella tasca della copertina della Tucano. Cerco bene. Nell’angolo in fondo a sinistra, sì, è quello che stai pensando: trovo le chiavi. Simone Tolomelli
Ok allora il mio motorino è stato rubato tra le dieci e le cinque, e poi parcheggiato, con il bloccasterzo e le chiavi lasciate nella tasca della copertina. Le guardo. Ci sono meno chiavi di quelle che mi ricordi. Apro la sella, mancano i guanti. E la catena. Mi hanno rubato—sul serio—i guanti e la catena, con il lucchetto. E hanno tolto dal mazzo di chiavi quelle, doppie, del lucchetto. Tolte. La pazienza di mettersi lì e sfilarle dall’anello. Io, ogni tanto, anche ‘sti ladri… boh. Vabbè.
Decido che è il momento di riprendermelo, e potrebbe finire qui. Ma questa è una storia vera. Qualche cosa non torna, non capisco. Ho inserito le chiavi, le giro, tolgo il bloccasterzo. È una storia vera. Poteva finire qui, così, ma no. Lo ridico, poteva finire qui, invece no: sono serio.
Mi ha fatto il pieno.
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tratto da Polpo, una selezione dall’omonima newsletter di Simone Tolomelli
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