cctm collettivo culturale tuttomondo Se potessi posare il cuore
di Cecilia Lavatore (Roma, 1990)
Se potessi posare il cuore da qualche parte… non so, liberarmene, ogni tanto, non dico sempre. Io lo farei. Potessi dormire almeno una notte senza, prendermi una piccola pausa da lui, una tregua, per riposare. Anche una sola sera, potessi lasciarlo magari sul comodino, prima di andare a dormire. O sull’altro lato del letto. O nella soluzione salina, come le lenti a contatto. Oppure nel frigo, lo potrei mettere nel frigo per farlo freddare. Poi lo tirerei fuori dal tapperwear e sarebbe più buono, come certe volte la pasta il giorno dopo. O il tiramisù.
Potessi sbarazzarmi delle sue leggi, delle sue tempeste, delle sue scellerate scellerate scelte, farne a meno, almeno occasionalmente, potessi non andare dove mi porta e seguire non lui, ma qualcos’altro, non so, tipo la milza o il fegato, (perché anche con il cervello ho fatto abbastanza danni). Potessi tenerlo sotto mano, invece che dentro al petto, vicino a me ma fuori da me come un libro da leggere o un elastico per capelli, un ciondolo tolto o un bicchiere d’acqua minerale. Potessi osservarlo con premura ma saggio e tenero distacco, come fosse di qualcun altro, un figlio minore o un bambino speciale. Potessi fare questa cosa di cavarmi via per qualche ora la sofferenza, l’amore, i ricordi questo sangue vivo di dosso io me lo sfilerei come un dente da latte, come un ferro che scotta, come una spina sottile, oppure una verità. Lo farei scivolare via, me ne disferei con un lungo diluito prelievo via da questo povero corpo magari estraneo ma colpevole ai fatti. Avrei la pelle più liscia, bellissima, il sonno profondo, i pensieri sereni. Respirerei meglio, sarei finalmente leggera e sicura di me, per qualche momento sarei quella strega senza cuore che tira dritto e comanda colore, io non avrei più così tanta paura.
È questo che mi dico stasera mentre ti aspetto arrivare sotto casa mia nel nostro quartiere di santi, vecchie fabbriche e treni. Nel nostro quartiere di mercati generali, libri antichi e studenti universitari. E invece, tu arrivi e io sono ancora tutta cuore, accidenti, mi batte dappertutto, tutta cuore grosso su di te, grosse speranze tese nel mio piccolo mucchio di ossa accatastate sulle scale. Tutta cuore di gatta randagia ruggente, splendente e lucida anche senza padrone. E tu sei così bello penso, che ci vorrebbe una poetessa più brava. O forse sei già un leone con gli occhi grandi come fauci sul mio collo fino di antilope africano nel nostro piccolo safari romano. Vieni su che ti faccio vedere la mia collezione di bottiglie d’acqua Sant’Agata semi aperte, i sogni avanzati dai cassetti, la scacchiera di partite perse – ti giuro di poco – con il mio coinquilino, il nostro frigo in carestia, questo balcone da pagare in scomode rate ventennali. Le banchine vuote sui binari stanchi quando si fa sera e nessuno è più in ritardo, nemmeno sulla fine. Le stelle degli altri. Il mio Gran Canyon di libri per terra perché la libreria deve ancora arrivare. Vieni su e toglimi le parole in cui mi nascondo, lasciami nuda, cruda e muta. Come un segreto mio, come un film di Buster Keaton, come Alessia il giorno in cui decise che non c’era più bisogno di parlare, come la TV se lasci solo il labiale. Come gli articoli che scriviamo sul giornale.
Vieni su, toglimi cinque dei miei anni e prenditeli tu. (Lo so, non è un buon affare). Ma così abbiamo la stessa età. E un problema in meno. Lasciami muta nella mia muta di serpente, fammi da ultimo strato di pelle quando mi abbracci, cadrà tutto di me stanotte cadrà tutto di me stanotte tranne il cuore.
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foto: Cecilia Lavatore
Cecilia Lavatore (Roma, 1990) è autrice e interprete dei suoi testi, insegna Lettere alle scuole superiori e collabora con il quotidiano “Il Messaggero”.
Nei suoi monologhi e nelle prose poetiche racconta testimonianze di vite coraggiose e significative per la lotta alle ingiustizie sociali, affiancate da brani più intimi e autobiografici.
Ha pubblicato il romanzo Citofonare Morabito, le voci di Corviale, la raccolta di racconti Mia sorella è figlia unica, la silloge Rame, materiale per una termo-poetica, e il libro comico-umoristico Cabaret Decameron.
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