collettivo culturale tuttomondo Antonia Storace Donne al quadrato
Che l’amore cambi le persone è una sciocchezza, una bugia.
La paura cambia le persone; il timore del giudizio sociale cambia le persone; la schiavitù alla disciplina, il condizionamento della falsa morale che divide le cose, le separa, schierandole, invariabilmente, dalla parte del torto o della ragione. Senza ponti nel mezzo, senza collegamenti, per insegnarci ad essere obbedienti invece che felici. Ad un bambino che cammina scalzo troppo a lungo, dici di indossare le scarpe, che il pavimento è sporco, c’è tanta polvere, ci sono i germi, non è igienico, non va bene, non si fa.
Oggi che sono adulta – o almeno provo ad esserlo – mi muovo in casa a piedi nudi, puntualmente, nel nucleo rovente dell’estate o con temperature artiche, polari, e non una sola volta, vedendomi, mia madre si astiene dal dire: “Metti le ciabatte, per piacere. Non vorrai mica ammalarti”. Come se i piedi fossero i suoi, e sua la malattia. Così, per eludere il castigo di un male futuro, che esiste solo nella testa e che non possiamo vaticinare con certezza, viviamo in uno stato di sottrazione quasi perenne: questa sottrazione, questo furto di cui siamo, simultaneamente, artefici e vittime, difende il corpo esteriore, il suo reticolo di assiomi accademici, ma fiacca lo spirito, lo indebolisce, privandolo della possibilità di essere libero e di esprimersi con spontaneità.
E allora dove sta la vera malattia? Nel germe del pavimento che si attacca alla pianta o nel cuore costretto a uno sforzo di involuzione e snaturamento?
Sono queste le cose che “cambiano” le persone.
Le regole nascono per coadiuvare il vivere civile; i dogmi, invece, producono schiavi, generano prigionieri, labirinti in fil di ferro dentro i quali impariamo a pascolare, arresi all’idea che non esistano alternative possibili. Ma se così fosse, se la nostra anima ne fosse sinceramente persuasa, non sentiremmo quest’ansia nel petto, questa frenesia che proviamo a sedare, scudisciandola con la ferocia dei sensi di colpa, e che pure certe volte si ribella alla frusta, incalzandoci verso il fil di ferro, verso i margini del recinto, per scoprire se esiste – ed esiste – un varco, un punto cedevole nel quale, alcuni di noi, sarebbero disposti a passare, anche a prezzo di lacerarsi la carne.
Io sono tra quelli. Perché oltre il recinto c’è la vita, e la vita vale qualunque prezzo. La parte incorrotta di noi, la parte selvaggia, non inquinata dai sabotaggi mentali e dai condizionamenti imposti, lo sa benissimo. Se non lo sapesse, non sentirebbe il bisogno di avvicinarsi al perimetro spinato e continuerebbe a pasturare beatamente. Cambiare vuol dire diventare altro da noi, manipolare la nostra natura autentica e farne cosa diversa, cosa lontana dalla sua dimensione pura, originaria. Quale sentimento sano, quale condizione indubitabilmente buona, ci costringerebbe ad essere quello che non siamo?
L’amore non cambia le persone: fa l’opposto, semmai, esortandole a diventare ciò che sono, ciò che sono davvero, intimamente, dividendo l’essere dal dover essere e perciò affrancandole dal pericolo di abiurare la propria identità.
L’amore ci legittima, ci rende giusti di una giustizia che, pur non essendo impermeabile all’errore, ai fallimenti, ai passi falsi, si compie nell’incontro con noi stessi e nel miracolo che da questo incontro viene. È un percorso irrefutabile, per niente facile, con picchi di dolore acutissimi: smantella le convinzioni sintetiche, le sicurezze mendaci che l’inclemenza del nostro giudice interno aveva prodotto – “cambiandoci”, depredandoci – e finalmente, tra le doglie della verità, ci partorisce.
C’è chi non lo intraprende mai.
Chi, incamminatosi di buona lena, dopo un po’ s’arresta. E chi, invece, arriva fino in fondo, sfidando a duello la più potente delle triadi, le tre sorelle demoniache: l’orgoglio, la paura e la vergogna. Se le vince, se trova il coraggio che trovò Eva nel mangiare la mela della conoscenza, pur contravvenendo agli ordini, le magie accadono. Che l’amore sia solo per i coraggiosi è un fatto vero ed è vero per i motivi di cui sopra: l’amore scuote le nostre scomode galere, piega le sbarre e non lascia scuse alla prigionia autoinferta. Oltre l’uscio c’è uno specchio: solo chi è disposto a guardarsi e a vedersi nella sua misura reale, bellissima e fangosa, è in grado di amare sul serio se stesso e l’altro.
Io ti amo e ti prendo così come sei, con i tuoi tagli, con le tue bassezze.
E non ti dico che sei sbagliato, non ti dico che non vai bene. Al contrario, ti mostro i miei tagli, ti rivelo le mie bassezze. Scopriamo allora che i tuoi tagli e i miei tagli sono simili più di quanto avessimo creduto. In questa scoperta, in questa simmetria di graffi e di danni, ci abbracciamo e, liberi dalla paura, emancipati dal giudizio, ci amiamo. Ma l’amore non ci cambia perché noi non siamo rotti, e non dobbiamo essere aggiustati. L’amore ci fa migliori, questo sì, ci perdona, restituendoci il potere di essere chi siamo.
Una antica leggenda racconta di una donna, la Loba – la Lupa – che si aggira nei deserti alla ricerca delle ossa dei lupi defunti.
Un osso alla volta, ricompone lo scheletro e, inginocchiatasi al suo capezzale, intona un canto d’amore. La scrittrice statunitense Clarissa Pinkola Estés, la cantadora, nel suo libro “Donne che corrono coi lupi”, lo spiega benissimo e fa accapponare la pelle. La Loba, la Lupa, abita dentro ognuno di noi. Nelle donne, negli uomini, in tutte le creature viventi. È il Sé primitivo, istintuale, depositario dell’unica verità possibile. La Que Sabe, come la chiama Clarissa – Colei che Sa – va a caccia di “ossa”, rinvenendo le parti di noi che abbiamo dissociato da noi, che abbiamo tacitato, annichilito, scomposto, seppellendole nel deserto della nostra psiche e condannandoci a un suicidio più o meno consapevole: parliamo di sentimenti, inclinazioni, desideri profondi ai quali abbiamo corrisposto azioni esterne inadeguate o addirittura contrarie. Ritrovare queste parti, ricomporre lo scheletro, è tornare ad essere chi siamo o imparare ad esserlo per la prima volta. Cantare al capezzale del cadavere del lupo – narra l’autrice – significa soffiare l’anima nelle ferite e guarirle con la voce, con le parole – che tanto possono, che tutto possono. Allora il canto si leva, e i muscoli intorno alle ossa ricrescono. Dopo quelli, tocca alla pelliccia, fulgida e fittissima. Così il lupo, riemerso alla vita, balza sulle quattro zampe e si lancia a perdifiato nei boschi.
L’amore, per se stessi e per l’altro, fa questo: soffia l’anima nelle ferite. Integra le parti che avevamo mandato a morire, curandole, resuscitandole. E un lupo finalmente risorto, potrebbe, secondo voi, impedirsi di correre?
Antonia Storace
da Donne al quadrato, Viola Editrice, 2015
immagine: Robin Isely
Antonia Storace è nata a Napoli, il 23 maggio del 1986.
È una scrittrice, una giornalista pubblicista, e un editor. Il suo esordio letterario, Donne al quadrato, edito da Viola Editrice (2015) si è rivelato un vero e proprio caso editoriale: ancora oggi, a distanza di sei anni dalla prima pubblicazione, rientra nel novero dei bestseller Amazon, nella sezione Poesia e Teatro. Alcuni dei brani in esso contenuti hanno preso parte al reading letterario Parole Note a cura di Radio Capital.
Di se stessa dice: “Corro all’alba, arrivo in anticipo, mangio sfogliatelle al banco, viaggio in treno, guardo lontano”.
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