collettivo culturale tuttomondo Tienitele pure le mie parole
Tienitele pure le mie parole, se le vuoi.
Ormai non mi servono più. Mi servivano quando c’eri – per rimettere ordine ai rami spezzati dai tuoi uragani, per razionalizzare e mettere tutto a posto cercando di incastrare i pezzi come le tessere di un puzzle, cercando di dare un senso. Forse solo di leccarmi le ferite, di tamponare le emoraggie del mio ego – quelle che sanguinavano giù nel profondo, cicatrici antiche di disamore, di incompiutezza, che evidentemente erano rimarginate solo con una colla, con uno stucco fragile che sapevi far sciogliere semplicemente girandomi le spalle.
Non mi servono più.
Le ho usate – anche per non far morire quel che tu stavi uccidendo, compresa una parte di te. L’ho fatto perché io sono per l’accanimento terapeutico: sono spietata in questo, perché sono poche le cose a cui tengo e non riesco mai a dir loro addio.
Se vuoi te le lascio.
So che forse non saprai che fartene: le chiuderai stropicciate in un cassetto, o magari le getterai a testa in giù nel bidone della spazzatura – riducendole prima in mille pezzi per far perder loro significato, dividendole e ricomponendole a tuo piacere come fanno i bambini o i serial killer per leggerci dentro qualcosa che ti venga più comodo.
So che hai altre cose importanti a cui pensare: una cucina da arredare, un mutuo da pagare, iscrizioni a scuola, regali di Natale, le bollette, l’olio di palma da evitare e le proteine della soia piene di estrogeni. Ma magari ti capita ancora di fare fatica ad addormentarti – e no, non voglio che le mie parole ti tormentino levandoti il sonno: ho smesso di farti da grillo parlante, non ho più voglia di fare l’avvocato delle cause perse. Non so nemmeno per cosa mi interessa lottare ormai, non so nemmeno che senso abbia aver lottato: avete vinto voi, hai fatto bene a stare dalla parte di chi indossa le maschere – è tutto più facile, e se potessi, se solo ne fossi capace, lo sceglierei anch’io.
Ma dicevo – magari ti potrà capitare che, durante la notte, se non riesci a dormire e cominci a vagare cercando qualcosa, tu abbia freddo.
Ecco, io penso che forse le mie parole potrebbero scaldarti.
Per questo te le lascio.
Catherine Black
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foto: Anya Mironyuk – fair use
Mi chiamo Catherine… No, non è vero. In realtà non mi chiamo Catherine.
Catherine “Cat” Black è il mio pseudonimo – il mio nome de plume, per dirla in termini un po’ vintage. Se vogliamo, Catherine è una maschera – ma, come molte maschere, serve per farmi riuscire ad essere me stessa, per potermi esprimere in libertà. Cat è un alter-ego, che rispecchia nel nome del mio blog: il Gatto Nero, che guarda la Luna, che sogna di notte quello che di giorno non c’è. Il Gatto Nero e la Luna sono, da sempre, simboli forti per me: simboli della mia interiorità, dell’introspezione riflessiva, di solitudini e malinconie agrodolci – e del loro cono d’ombra che rivela profondità inattese, palpiti potenti, contraddizioni intense.
Credo nel potere delle parole. Nel potere espressivo delle parole. Nel potere salvifico, terapeutico delle parole. Nel bisogno di buttare fuori delle parole, di trasformare in qualcosa di concreto, forse di bello, che nasce da un po’ di confusione, da un po’ di delusione. Ma sa ritrasformarsi – e donarsi un significato (by Catherine Black)
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